Con quale stato d’animo affronteremo i prossimi eventi sportivi? Sabato a Roma ci sarà la finale di Coppa Italia, otto giorni dopo la finale di Champions sarà allo stadio Meazza di Milano, poi ci saranno i campionati europei in Francia.
Al pensiero delle bombe negli stadi siamo più spaventati che mai perché, nonostante tutto, il calcio è ancora una festa e quando la celebriamo, quando gridiamo e balliamo, siamo più indifesi. Ed essere feriti lì fa male, molto più male. Se rimaniamo senz’acqua e corrente elettrica un giorno qualsiasi è un guaio, ma se accade il giorno di Natale è una tragedia.
Se c’è una cosa che logora più della guerra è la guerra non dichiarata. Nelle guerre sono armati entrambi, c’è un terreno di scontro. Ci sono regole. Regole malate, regole di guerra, ma regole. A Parigi, Hannover, Manchester, Roma, Milano non c’è nulla di tutto questo. Ci sarà che da una parte ci siamo noi, la nostra cultura calcistica che – nonostante tutto – ci unisce lì dove né politica né altro, riesce; e dall’altra c’è chi disprezza e odia tutto quello che noi siamo e che, volenti o nolenti, è rappresentato nei nostri rituali di tifo: stadi come cattedrali, giocatori cronisti allenatori come sacerdoti. Per questo siamo più spaventati: perché lì dove siamo più felici lì siamo più uomini. Ed è proprio l’uomo che sono che l’Isis vuole distruggere. So bene che lo stadio a volte si è trasformato in occasione di guerriglia ma noi vorremmo che così non fosse, lottiamo con tutto noi stessi perché rimanga il nostro momento catartico, rituale, sacramente laico, come è stato per intere generazioni. Non diamola vinta all’Isis, non facciamo loro il dono di impaurirci e di toglierci il calcio. Come scrisse Antoine Leiris dopo aver perso la moglie negli attentati di Parigi, rispondere all’odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha reso l’Isis ciò che è: “Volete che io abbia paura, che guardi i miei concittadini con sospetto, che sacrifichi la mia libertà per la sicurezza. Ma non ce la farete». Almeno proviamoci.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da Metro
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