L’ISIS: rivela la mappa agghiacciante del piano quinquennale per la dominazione globale

Lo Stato islamico, questo è il nuovo nome che hanno assunto i jihadisti da quando hanno ufficialmente creato il califfato, hanno occupato la sede dell’arcivescovado siriaco-ortodosso di Mosul, la chiesa di Sant’Efrem. I terroristi sono arrivati ieri con tre pick-up, hanno preso l’edificio e issato la bandiera nera sul tetto.  Lo Stato islamico ha anche occupato la sede dell’arcidiocesi calde cattolica della città. Anche in questo caso la bandiera nera è stata issata sul tetto. Anche a Raqqa -commenta leone grotta-, dove i terroristi hanno instaurato il loro primo califfato l’anno scorso, la chiesa principale della città è stata occupata e trasformata nel quartiere generale degli islamisti. Ieri, inoltre, i sostenitori dello Stato islamico hanno pubblicato su twitter una mappa (che vedete in alto) che indica i territori che i terroristi vogliono conquistare entro cinque anni per estendere i domini del neonato califfato. La mappa comprende il Medio Oriente, il Nord Africa, i Balcani e gran parte dell’Asia occidentale. Tra i domini da conquistare è compresa anche la Spagna, che è stata dominata dai musulmani per 700 anni fino al 1492. La data indicata per la conquista di Madrid è il 2020. L’avanzata dei combattenti di ISIS mette il presidente degli Stati Uniti Barack Obama di fronte alla sfida più grande della sua leadership. Se l’ISIS raggiunge il suo obiettivo, nei confini di Turchia, Giordania, Libano, Arabia Saudita e Iran salirà al potere uno stato islamico sunnita. Nel mondo si aprirà un buco nero di estremismo che minaccerà gli stati in ogni modo possibile. L’Iraq sarà diviso in tre, e la sicurezza del mondo sarà esposta a un rischio decisamente maggiore. Con questo successo l’adesione da parte dei disillusi, degli scontenti, e delle ideologie sarà incoraggiata e questo sarà un pericolo concreto appena tutti questi uomini torneranno in patria. Un movimento di uomini, mezzi e munizioni formerà la tempesta perfetta dei militanti nel cuore del Medio Oriente.

È chiaro che gli Stati Uniti non possono starsene a guardare, ma un loro ulteriore intervento, dopo otto anni di disastrosa occupazione dell’Iraq, non solo sarà difficile da digerire, all’interno del Paese, ma diventerà un boccone ancora più indigesto per gli avversari mediorientali e i loro alleati. Dopo la lunga, costosa e inconcludente guerra in Iraq, la reputazione degli USA in Medio Oriente sembra irreparabilmente compromessa e la loro influenza diminuita. Questo è sia la ragione immediata che la causa prima della politica di ‘disimpegno’

dell’amministrazione Obama, che si concentra ora sull’idea di usare contro i militanti intelligence e dei droni in paesi come lo Yemen, la Somalia e il Pakistan. Ma questa politica di guerra a distanza ed il suo tributo di vittime civili hanno ulteriormente danneggiato la reputazione degli Stati Uniti nella regione. Nelle complesse dinamiche del Medio Oriente, però, gli Stati Uniti potrebbero essere costretti a fare una battaglia per proteggere gli alleati nella regione, soprattutto in Paesi come la Turchia e la Giordania, al confine con l’Iraq. Gli Stati Uniti cercheranno di aiutare il governo di Maliki a difendersi da ISIS, secondo David Pollard del Washington Institute for Near East Policy: «Se c’è una minaccia diretta, da parte di ISIS o di altri elementi interni all’Iraq, contro la sicurezza della Giordania, della Turchia o di altri paesi del Golfo Arabo, gli Stati Uniti potrebbero effettivamente prendere in considerazione un intervento diretto di qualche tipo. Senza mettere piede sul terreno, ma con il supporto aereo o di missili o dreni». Sembra che questa previsione in ordine alle ultime dichiarazioni, sembra la più probabile. La confusione delle dichiarazioni da parte dell’amministrazione Obama, comunque non fanno presagire nulla di buono.  Mentre le alleanze nella regione cambiano e vengono ricostruite, nel dopoguerra iracheno e dopo le primavere arabe, gli Stati Uniti in Iraq tra gli attori esterni non è il più potente. L’influenza è stata sostituita da Turchia e Iran. Gli USA arrivano al terzo posto. Obama è dunque di fronte a un dilemma. Una potenziale tempesta internazionale – e nazionale – si sta preparando,  mettendo gli interessi statunitensi  in gioco. La capacità statunitense di influenzare i pesi massimi nell’area è molto ridotta. Dovrà muoversi con leggerezza per manovrare in una regione dove le vecchie alleanze sono logore e non è più così facile distinguere l’amico dal nemico.

Il governo sciita in Iraq, sostenuto dal Primo Ministro Nouri al-Maliki, avrebbe messo gli Stati Uniti nella curiosa posizione di dover allineare i propri interessi, forse anche militarmente, con il super-nemico Iran. Per farlo effettivamente, però, dovrebbe causare ulteriore inimicizia all’ormai traballante alleanza USA-Arabia Saudita. Ma l’Arabia Saudita e gli altri alleati del Golfo ora sono accusati di sostenere in termini finanziari, militari e ideologici dei gruppi fondamentalisti dell’ISIS, i quali in Siria sono sostenuti economicamente perché considerati ribelli moderati, ma al di là del confine sono aggressivi e destabilizzanti. Sabato scorso il presidente Obama ha detto di essere impegnato a riflettere su una serie di opzioni, ma un primo passo da prendere in esame era rimettere ‘piede sul terreno’. “Noi non rimanderemo le truppe Usa a combattere in Iraq, ma ho chiesto al mio team incaricato della sicurezza nazionale di elaborare una serie di altre opzioni che potrebbero contribuire a sostenere le forze di sicurezza irachene”,

ha detto. Una laconica dichiarazione del portavoce del Pentagono, John Kirby, fa capire che il Pentagono stesso avrebbe assunto un approccio ancora più intransigente. “Questo è quanto le forze di sicurezza irachene e il governo iracheno devono affrontare”, ha detto nelle prime ore della battaglia. Pochi giorni dopo la portaerei USS George H. W. si è messa in rotta verso il Golfo Persico, accompagnata da due navi da guerra con armamento missilistico. Il Pentagono attende gli sviluppi. Le navi della Marina hanno lo scopo di proteggere vite americane, cittadini americani e interessi americani in Iraq, secondo la dichiarazione del Pentagono. Non si fa parla dell’intenzione di proteggere lo stato dell’Iraq o i civili iracheni. Arrestare l’offensiva di ISIS potrebbe essere il miglior obiettivo di breve termine per gli Stati Uniti, ma gli analisti dicono che è improbabile che ciò accada senza supporto aereo. Gli USA sono restii a fornire tale supporto, e la NATO ha messo in chiaro che non intende farsi coinvolgere. Gli insorti di ISIS operano facendo base in città e villaggi, e intanto cresce la possibilità di perdite di infrastrutture e vite civili. Gli Stati Uniti sanno anche troppo bene che arriveranno segnalazioni di perdite tra i civili, vere o inventate, e ciò oscurerà ancora di più le statistiche già tetre dell’intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente. “Un intervento americano non sarebbe utile”, ha detto il politico iracheno Iyad Allawi a CNN. «Sarebbe come gettare benzina sul fuoco. Penso che gli americani abbiano sprecato i loro sforzi e la loro capacità di esercitare influenza sulle cose dell’Iraq, in particolare dopo la smobilitazione del 2011».

Al momento il Califfato islamico si estende dalla provincia siriana settentrionale di Aleppo, al confine con la Turchia, attraverso i governatorati di Raqqa e Deir Ezzor, nell’esteso entroterra a est di Homs, sino alla provincia irachena dell’al Anbar, in cui gli uomini dall’Isis hanno cominciato a infiltrarsi dall’inizio del 2014. A giugno, con la presa di Mosul, il territorio occupato ha raggiunto il nord dell’Iraq, nel governatorato di Ninive. Infine, sferrata l’offensiva verso sud, si è allargato fino all’avamposto orientale di Diyala e consolidato, a ovest, nell’al Anbar. La capitale Baghdad è accerchiata e a nord le unità curde dei peshmerga difendono dalle mire dell’Isis la provincia di Kirkuk con suoi enormi giacimenti petroliferi, limitrofi all’attuale regione autonoma del Kurdistan. Anche a Tikrit, a nord di Baghdad si combatte per strappare la città ai jihadisti dell’Isis che, come a Raqqa, dopo essersi impossessati dei centri, impongono un’interpretazione estrema della sharia. Attivando rapidamente scuole di formazione coranica, centri d’addestramento, uffici politici e strutture di controllo parastatali. Con Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Sham), i miliziani intendono i territori del Levante della Grande Siria prima della caduta dell’Impero ottomano e della spartizione territoriale moderna, frutto dell’accordo coloniale segreto di Sykes-Picot del 1916. Con un trattato sottobanco, in pieno conflitto mondiale, il diplomatico inglese, Mark Sykes, e quello francese, François Picot si accaparrarono fette del Medio Oriente, tracciando con il righello confini che avrebbero mutilato la Siria e creato un Iraq britannico «indipendente», abitato da almeno tre culture diverse (sciiti, sunniti, curdi). L’Isis promette agli arabi di vendicare la «grande offesa» coloniale, restaurando il primo Califfato islamico degli Omayyadi (661-750 d.C.) che riuniva questa vasta regione, prima della dominazione ottomana e mongola. Furono gli arabi della Mecca a introdurre e far fiorire l’Islam da Cordoba, in Andalusia, ai territori che lambiscono l’odierna India. Capitali della Grande Siria (Levante) furono Damasco e, successivamente Baghdad. Anche Raqqa, capitale del terzo Califfato degli Abbasidi (796-809 d.C.) ha un valore simbolico per i jihadisti. Mentre Mosul, antico centro assiro, è il luogo di sepoltura di diversi profeti del Vecchio Testamento, base anche del Corano.

Territori ad oggi conquistati dall’ISIS.

In Iraq e in Siria, l’Isis punta alla riconquista delle vecchie capitali, Damasco e Baghdad. E, da lì, alla presa di tutto il territorio siriano, da Homs a Hama e Latakia, fino alla metropoli, parzialmente già presa, di Aleppo. In Iraq, non rientrerebbero nel disegno del Califfato né il meridione sciita a sud di Baghdad, né la regione autonoma del Kurdistan: due cuscinetti che, fatta esclusione per il governatorato di frontiera di Diyala, salvano l’Iran sciita dalla minaccia di invasione diretta. Tra i Paesi confinanti con la Siria e l’Iraq, molto più a rischio, viceversa, viene ritenuta la Giordania, esposta sia a nordest sia a nordovest. Nelle zone più povere del regno hashemita già sventolano le bandiere nere dell’Isis. Inoltre è stato di massima allerta ai confini col Libano, dove un gruppo sunnita collegato all’Isis ha rivendicato un attentato a Beirut. E, soprattutto, con la Turchia che, nelle zone di confine delle province di Aleppo e Raqqa ha allevato i qaedisti di al Nusra. Con l’Isis è ancora peggio. di Francis Marrash

 

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