Categorie: Italiae et Ecclesia

L’Italia del presepe che nessuno chiude

Passano i secoli, sorgono e tramontano le mode, le scuole teologiche si avvicendano, i catechismi mutano accento ma lui, il presepe, resiste. Otto secoli dopo l’esordio a Greccio, l’”invenzione” di san Francesco è ancora lì, fresca e viva e attuale. Anche Antonio Paolucci, storico dell’arte e direttore dei Musei Vaticani, come ogni anno farà il suo, di presepe, nella sua casa fiorentina, «con le statuine di quand’ero bambino. L’ho sempre fatto e lo farò sempre». Con un assistente, il nipotino (ancora molto piccolo) e un aiutante, il gatto di casa, lui sì assai interessato all’allestimento.

Professore, otto secoli e il presepe è ancora lì. Perché?
Perché tocca il cuore di tutti. Mette in campo contemporaneamente tre elementi: un bambino che nasce; la gente che va a rendergli omaggio; e, cosa importantissima almeno nella tradizione italiana, la rappresentazione in senso teatrale della fraternità che tutti ci unisce sotto il cielo.

Un presepe corale. Ci sono proprio tutti?
Tutti, animali compresi. E nel presepe napoletano compaiono perfino i personaggi della cronaca, cosa molto saggia dal punto di vista teologico. Gesù nasce per ciascuno di noi, a prescindere da meriti e colpe, se viviamo una vita virtuosa o macchiata dal peccato, di qualunque ceto e professione… Una cosa molto bella, che dovrebbe toccare e convincere tutti.

Non proprio tutti. Anche quest’anno arrivano notizie di presepi proibiti nelle scuole, accusati di creare divisione, addirittura di offendere. Le pare possibile?
Il presepe è un elemento identitario della nostra cultura. I presepi d’arte come quelli popolari e casalinghi. Altrove il presepe si fa, ma non è sentito come da noi in Italia.

Perché?

Noi italiani siamo pieni di difetti, tuttavia conserviamo umanità e senso della fraternità. La nascita di un bambino, il senso del dono del Cielo e dei doni dei pastori, la notte d’inverno… è tutto molto comprensibile e chiaro anche per chi in chiesa non ci va, perché fa parte dell’imprinting italiano. Proibirlo per un malinteso senso di rispetto verso gli stranieri è in contraddizione con l’integrazione. Il marocchino musulmano o il cinese confuciano, se non capiscono il presepe, difficilmente potranno capire un tratto caratteristico del popolo che li sta ospitando.

Fin dall’inizio tutto ciò era così chiaro che gli stessi artisti si sono misurati con il presepe. Può parlarci di alcuni di essi?


Sono così tanti… Comincerei da Giotto. Nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, una Madonna dolcissima copre il Bambino con un mantello. Ma a colpire di più sono forse l’asino e il bue, in primo piano mentre girano la testa verso l’alto per vedere meglio. Poi c’è Caravaggio. Nel momento più drammatico della sua vita, con una condanna a morte sul capo, fugge da Malta e approda in Sicilia, a Siracusa. Qui i cappuccini gli commissionano una tela, un presepe. La Madonna viene collocata in una vera stalla, Gesù è sulla vera paglia. E anche qui ecco il bue e l’asino, raffigurati con un naturalismo tale che sembra di avvertirne l’odore e il calore.

Pare che gli animali siano protagonisti a pieno titolo. L’intero creato redento?
Una favola nordeuropea racconta che nella notte di Natale, e solo in quella notte, gli animali parlano: nasce il Salvatore e anche loro si sentono fraterni al miracolo. Mi viene in mente Jacopo da Ponte, detto Bassano (XVI secolo), che dipinge un presepio dove gli esseri umani quasi non si vedono ma ci sono tantissimi animali, mucche, pecore e perfino cani da pastore con il collare ispido di punte, tutti di fretta verso il Bambino.

Finora abbiamo parlato solo di artisti italiani.
Un presepe straordinario, che sottolinea l’aspetto teologico, è il trittico di Hugo van der Goes (XV secolo), conservato agli Uffizi, con il Bambino immerso in una sorta di lago d’oro e gli angeli in vesti sacerdotali, con un mazzo di spighe dorate. I pastori sono d’un naturalismo totale, quasi brutale. C’è un vecchio pastore con il cappello in mano, che sorride mostrando la bocca sdentata, imbarazzato: è la sua, la nostra gioia per il Natale.

Fonte. Avvenire

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