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ll richiamo preoccupato (e l’incoraggiamento) di Papa Francesco ai Vescovi americani

Papa Francesco ai vescovi Usa: vegliare e discernere, abbandonare discredito e delegittimazione

Il Papa scrive ai presuli statunitensi in ritiro spirituale. Nel contesto dello scandalo degli abusi richiama alla “conversione” e “comunione fraterna” contro mere logiche di organizzazione

La ferita nella credibilità non si risolve solo con in una logica di organizzazione ma con la conversione. Con la Lettera inviata oggi ai vescovi statunitensi, riuniti da ieri fino all’8 gennaio a Chicago, presso il Seminario Mundelein, per una Settimana di esercizi spirituali, Papa Francesco vuole accompagnare la loro riflessione come un fratello e stimolare “nella preghiera e nei passi che fate nella lotta contro ‘la cultura dell’abuso’ e nel modo di affrontare la crisi della credibilità”. E’ stato lo stesso Papa Francesco a suggerire questo tempo di preghiera e discernimento, a motivo della crisi di credibilità che attraversa la Chiesa nordamericana per lo scandalo degli abusi sui minori. Il Papa avrebbe voluto accompagnare personalmente i vescovi per un paio di giorni ma per problemi logistici non è stato possibile – ricorda nella missiva – e questa Lettera intende, dunque, supplire in qualche modo al viaggio mancato. Il Papa si rallegra, poi, che abbiano accettato che a guidare gli Esercizi sia il predicatore della Casa Pontificia, il frate cappuccino padre Raniero Cantalamessa.

Il filo conduttore della riflessione del Papa parte dalle parole di Gesù nel Vangelo di Marco: chi vuol essere il primo, si faccia servitore di tutti. Giacomo e Giovanni avevano chiesto di sedere uno alla sua destra e l’altro alla sinistra, provocando sdegno negli altri discepoli. Il Vangelo, dunque, non teme di evidenziare “certe tensioni, contraddizioni e reazioni che esistono nella vita della prima comunità” dei discepoli: ricerca dei primi posti, invidie, accordi. Così come i complotti e gli intrighi che si organizzavano intorno al messaggio e alla figura di Gesù da parte delle autorità politiche, religiose e dei mercanti dell’epoca.

Vegliare e discernere

È proprio nei momenti difficili che bisogna vegliare affinché “le nostre decisioni, opzioni, azioni e intenzioni non siano viziate (o il meno possibile viziate) da questi conflitti e tensioni interne e siano, soprattutto, una risposta al Signore che è vita per il mondo”. Bisogna, quindi, “vegliare” e discernere per ascoltare ciò che è gradito al Signore. “Molte azioni – ricorda il Papa – possono essere utili, buone e necessarie e addirittura possono sembrare giuste, ma non tutte hanno ‘sapore’ di vangelo. Se mi permettete di dirlo in modo colloquiale: bisogna far attenzione che ‘il rimedio non diventi peggiore della malattia’”.

Ferita abusi di potere, di coscienza e sessuali

“Negli ultimi tempi la Chiesa degli Stati Uniti si è vista scossa da molteplici scandali che toccano nel più profondo la sua credibilità”, scrive Papa Francesco: “tempi burrascosi nella vita di tante vittime che hanno subito nella loro carne l’abuso di potere, di coscienza e sessuale da parte di ministri ordinati, consacrati, consacrate e fedeli laici” ma anche “tempi burrascosi e di croce per quelle famiglie e tutto il Popolo di Dio”. “La credibilità della Chiesa si è vista messa in discussione e debilitata da questi peccati e crimini, ma specialmente dalla volontà di volerli dissimulare e nascondere”, cosa che ha generato una maggiore sensazione di insicurezza e mancanza di protezione dei fedeli. Papa Francesco nota, poi, che l’atteggiamento di occultamento ha portato a ferire più profondamente la trama di rapporti che oggi si è chiamati a ricomporre. “Siamo consapevoli – prosegue – che i peccati e i crimini commessi e tutte le loro ripercussioni a livello ecclesiale, sociale e culturale hanno creato un’impronta e una ferita profonda nel cuore del popolo fedele”, riempiendolo di “sconcerto e confusione”.

Questo – nota il Papa – serve anche come “scusa per screditare continuamente” e mettere in dubbio la vita donata di tanti cristiani: ogni volta che la parola del Vangelo diventa una “testimonianza scomoda”, non sono poche le voci che “intendono farla tacere”, segnalando le incongruenze dei membri della Chiesa e ancora di più dei loro pastori. Un’impronta e una ferita che si trasferisce all’interno della comunione episcopale “generando non esattamente il sano e necessario confronto” ma “la divisione e la dispersione”, frutti “del nemico di natura umana” – come scriveva Sant’Ignazio negli Esercizi spirituali – che “trae più vantaggio dalla divisione” che “dai dissensi logici e auspicabili nella coesistenza dei discepoli di Cristo”.

Ferita nella credibilità non si risolve a livello organizzativo

Per il Papa serve, quindi, un atteggiamento nuovo per risolvere il conflitto. La ferita nella credibilità non si risolve “con decreti volontaristici” o semplicemente con “nuove commissioni” o “migliorando gli organigrammi di lavoro come fossimo capi di un’agenzia di risorse umane”. Una visione che riduce la missione del pastore a un mero compito organizzativo nella “impresa dell’evangelizzazione”. Si tratta di misure “necessarie, ma insufficienti” perché corrono il rischio di ridurre tutto a problemi organizzativi.

Serve conversione missionaria

La ferita nella credibilità tocca “a livello neurologico i nostri modi di relazionarci”. Come artigiani bisogna, quindi, ricostruire un tessuto vitale con spazi sani e maturi, che sappiano rispettare l’integrità e l’intimità di ogni persona, infondendo fiducia nella costruzione di un progetto sicuro e trasparente. “Questo – dice con chiarezza il Papa – esige non solo una nuova organizzazione, ma anche la conversione della nostra mente (metanoia), del nostro modo di pregare, di gestire il potere e il denaro, di vivere l’autorità e anche di come ci relazioniamo tra noi e con il mondo”. L’orizzonte delle trasformazioni nella Chiesa è sempre quello di stimolare “uno stato costante di conversione missionaria e pastorale che permetta nuovi itinerari ecclesiali sempre più conformi al Vangelo”. Serve che la dimensione pragmatica “delle nostre azioni” sia accompagnata dalla loro dimensione paradigmatica. Senza questo, si corre il rischio che tutto ciò che si farà, sia tinto di “autoreferenzialità, autopreservazione e autodifesa” e quindi condannato a cadere nel vuoto.

La credibilità è frutto di un corpo unito

Il Papa ricorda, poi, ai vescovi degli Stati Uniti che “una nuova stagione ecclesiale ha bisogno, fondamentalmente, di pastori maestri del discernimento nel passaggio di Dio per la storia del suo popolo e non di semplici amministratori, poiché le idee si dibattono, ma le situazioni vitali si discernono”. Quindi, in mezzo alla confusione che “le nostre comunità vivono” in primo luogo bisogna trovare uno spirito comune capace di aiutarci nel discernimento “non per ottenere la tranquillità frutto di un equilibrio umano o di una votazione democratica che faccia vincere ‘gli uni sugli altri’” ma “un modo collegialmente paterno di assumere la situazione presente”, che protegga dall’orfanità spirituale il popolo che ci è stato affidato. Francesco spiega che la credibilità non si radicherà “in noi stessi” o “nei nostri meriti” o “nel nostro onore”, “simboli della nostra pretesa – quasi sempre inconsapevole – di giustificarsi con noi stessi” a partire dalle proprie abilità o dalla disgrazia altrui. La credibilità – ricorda invece il Papa – “sarà frutto di un corpo unito che, riconoscendosi peccatore, “è capace di proclamare il bisogno di conversione” perché non si annuncia se stessi, ma Gesù e così si testimonia che, nei momenti più bui, il Signore apre cammini e “unge la fede scoraggiata, la speranza ferita e la carità addormentata”.

La Cattolicità non è solo questione dottrinale o giuridica

Il Papa sottolinea anche un altro aspetto importante richiamandosi a San Giovanni XXIII: l’autorità non si può isolare, perché una fede e una coscienza spogliata dell’istanza comunitaria, “come se fosse un ‘trascendentale kantiano’, poco a poco finisce con l’annunciare ‘un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo’”. Si può “correre il rischio di finire col fare di Dio un ‘idolo’ di un determinato gruppo esistente” mentre “il costante riferimento” alla comunione universale, al Magistero e alla Tradizione millenaria della Chiesa, “salva i credenti dall’assolutizzazione del ‘particolarismo’ di un gruppo, di un tempo, di una cultura dentro la Chiesa”. La Cattolicità si gioca, dunque, anche nella “capacità che abbiamo noi pastori di imparare ad ascoltarci” e a lavorare insieme. La Cattolicità non si può ridurre solo a una questione “meramente dottrinale o giuridica” ma ricorda che non procediamo soli.

E questa “coscienza collegiale di uomini peccatori in permanente conversione, ma sempre sconcertati e afflitti da tutto l’accaduto, ci permette di entrare in comunione affettiva con il nostro popolo” e “ci libererà – prosegue Francesco – dal cercare vani trionfalismi che pretendono di occupare spazi invece che risvegliare processi. Il suo invito è quindi quello che la paternità spirituale non resti prigioniera di un atteggiamento sulla difensiva ma cerchi di “ascoltare la voce del Signore” che si trova “nella calma che nasce dal confessare il dolore nella sua situazione presente”.

No a discredito e delegittimazione

Bisogna, quindi, abbandonare come modus operandi “il discredito e la delegittimazione, la vittimizzazione e il rimprovero nel modo di relazionarsi”. Al contrario, bisogna dare spazio alla brezza soave che solo il Vangelo può offrire. “Tutti gli sforzi che faremo per rompere il circolo vizioso del rimprovero, della delegittimazione e del discredito, evitando la mormorazione e la calunnia, in vista di un cammino di accettazione orante e vergognosa dei nostri limiti e peccati e stimolando il dialogo, il confronto e il discernimento, tutto ciò ci disporrà a trovare cammini evangelici che suscitino e promuovano la riconciliazione e la credibilità che il nostro popolo e la missione esigono da noi”, sottolinea nella Lettera il Papa ricordando che per fare questo, bisogna “smettere di proiettare sugli altri le nostre confusioni e insoddisfazioni, che costituiscono ostacoli  per l’unità” e invece mettersi insieme in ginocchio dinanzi al Signore “lasciandoci interpellare dalle sue piaghe, nelle quali potremo vedere le piaghe del mondo”. Francesco, poi, evidenzia che “il Popolo fedele di Dio e la missione della Chiesa hanno già sofferto, e soffrono troppo, a causa degli abusi di potere, coscienza, sessuali e della loro cattiva gestione, per aggiungere loro la sofferenza di trovare un episcopato disunito, concentrato nel discreditare più che nel trovare cammini di riconciliazione”. Bisogna, quindi, “spogliarci di tutto quello che non aiuta a rendere trasparente il Vangelo di Gesù Cristo”.

Il servizio non è di marketing o strategico

Un atteggiamento che non rivendica per sé i primi posti” né gli applausi per i nostri atti ma chiede “a noi pastori l’opzione fondamentale di voler essere seme che germinerà quando e dove il Signore meglio vorrà”. Un’opzione che salva dal misurare il valore dei nostri sforzi con i criteri di funzionalità ed efficienza che reggono il mondo degli affari”. Bisogna invece aprirsi al “potere trasformatore del Regno di Dio”. “Non possiamo permetterci, in mezzo alla tormenta – scrive il Papa –  di perdere la fede nella forza silenziosa, quotidiana e operante dello Spirito Santo nel cuore degli uomini e della storia”. La credibilità nasce dalla fiducia che, a sua volta, nasce dal servizio sincero e quotidiano verso tutti: un servizio che “non intende essere di marketing o strategico per recuperare il posto perso o il riconoscimento vano nel tessuto sociale” ma appartiene alla sostanza stessa del Vangelo.

La Chiesa sia terra di incontro per tutti

La chiamata alla santità, inoltre, protegge dal cadere in false opposizioni o riduzionismi e “dal tacere dinanzi a un ambiente propenso all’odio e all’emarginazione, alla disunione e alla violenza fra fratelli”. La Chiesa ha la missione di “essere terra di incontro e ospitalità non solo per i suoi membri, ma anche per tutto il genere umano”. E la sua missione è proprio lavorare instancabilmente per contribuire all’unità fra persone e popoli come simbolo e sacramento del dono di Cristo sulla Croce per tutti gli uomini. Questo è il servizio più grande quando vediamo “risorgere nuovi e vecchi fratricidi”. Le comunità devono quindi testimoniare che Dio è Padre di tutti e la credibilità si gioca anche “nella misura in cui aiutiamo, insieme ad altri attori, a intrecciare un tessuto sociale e culturale che non solo si sta sfaldando ma che alberga e rende possibili nuovi odi”. “Come Chiesa non possiamo rimanere prigionieri dell’una o dell’altra trincea, ma dobbiamo vegliare e partire sempre dal più indifeso”, esorta ancora il Papa. “Che altissimo compito abbiamo nelle mani, fratelli; non lo possiamo tacere e anestetizzare a causa dei nostri limiti e mancanze!”, esclama poi il Papa richiamandosi a Madre Teresa di Calcutta.

Gesù, nell’ora della croce, sapeva che le tentazioni più grandi dei suoi discepoli sarebbero state la divisone e la dispersione e, pertanto, chiese al Padre che fossero una cosa sola e nessuno si perdesse. “Immergendoci nella preghiera di Gesù al Padre – conclude il Papa – vogliamo imparare da Lui e, con determinata deliberazione, cominciare questo tempo di preghiera, silenzio e riflessione, di dialogo e comunione, di ascolto e discernimento, per lasciare che Egli forgi il cuore a sua immagine e aiuti a scoprire la sua volontà”. Un cammino nel quale “non procediamo da soli”: Maria accompagnò la prima comunità di discepoli e la protesse dall’orfanità spirituale che sfocia nella autoreferenzialità, permettendole di perseverare nell’incomprensibile, nell’attesa che giungesse la luce di Dio.

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