A far da controcanto a questa euforia da vita salubre, tonica e asciutta è ormai da diversi anni Manfred Lütz, psichiatra, teologo, saggista di successo, membro del Pontificio Consiglio dei laici e della Pontificia Accademia per la vita. Tra i suoi libri figurano Dio. Una piccola storia del più grande (Queriniana 2008) bestseller in patria, e il recente Il piacere della vita. Contro le diete sadiche, i salutisti a tutti i costi e il culto del fitness (San Paolo).
Professor Lütz, l’uomo occidentale ha lottato per secoli per l’avanzamento della scienza, della medicina, della farmacologia, per migliorare le sue condizioni di vita. Ora siamo giunti a un paradosso, anzi a diversi paradossi: più si allunga la vita e più il welfare, le pensioni diventano difficili da sostenere; più si allunga la vita e più si allunga la vecchiaia, l’età che tutti vorrebbero evitare… e molti, anzi, pensano ora di accorciare con il suicidio assistito… sembra una nemesi. C’è qualcosa che non torna in questa dinamica. Dove sta l’errore?
«Qual è una società felice, quella che onora la gioventù o quella che onora gli anziani? C’è solo una risposta logica: è quella che onora gli anziani. Se una società onora in primo luogo la gioventù, un sedicenne che guardasse al proprio futuro vedrebbe un orizzonte oscuro. Se onora l’età della vecchiaia, quel sedicenne può pensare al giorno in cui, seduto nel senato della vita, guardato con rispetto e sazio di anni, come dice in modo l’Antico Testamento, morirà.
L’odierno culto dell’essere giovani è una via all’infelicità, perché, come fa notare lei, la vecchiaia diventa sempre più lunga grazie all’avanzamento della medicina, ma allo stesso tempo viene sempre più svilita. A chi è vecchio, malato, portatore di handicap o limitato in altro modo, alcuni vogliono offrire la possibilità di non essere più un peso per se stesso, per la famiglia e la società.
L’introduzione nella legislazione del suicidio assistito sarebbe la rottura dell’argine, che metterebbe in pericolo il proprio diritto all’autodeterminazione dell’anziano, del malato, del disabile e che sarebbe radicalmente in contraddizione le nostre costituzioni e il principio cristiano che ancora portano in sé, quello dell’uguale dignità di ogni essere umano, incluso il più debole. Per questo le associazioni mediche e le Chiese sono contrarie. Bisogna vedere quanto a lungo l’argine reggerà».
Anche quell’ansia collettiva che è il salutismo sembra un paradosso: non abbiamo mai vissuto in una società così salubre come quella odierna… non pensa?
«Un medico mio collega, piuttosto spiritoso, ha detto una volta: sana è la persona che non è stata visitata abbastanza. Già Aldous Huxley disse: la medicina ha fatto tali progressi, che nessuno si può più ritenere sano…».
Lei ha parlato a più riprese, in libri e interviste, di una vera e propria “religione della salute”. Quali sono i tratti “religiosi” che vede nel salutismo? Quanto c’entra la volontà di esorcizzare la morte?
«La mia impressione è che oggi molti non credano più in Dio ma nella salute e tutto quanto una volta si faceva per il Dio – pellegrinaggi, digiuni e opere buone – oggi lo si faccia per la salute. Ci sono persone che non affrontano più la vita in modo lineare, ma vivono in modo “preventivo” e alla fine muoiono sane. Però anche chi muore sano, purtroppo è morto. Così anche le manifestazioni tipiche dell’esperienza religiosa sono entrate nel campo della salute. Si può osservare il passaggio dalle tradizionali processioni alla visite in processione dal medico, ai pellegrinaggi dallo specialista.
Nelle palestre si possono incontrare persone che vivono una vita di rinunce e mortificazioni in confronto alle quali la regola degli ordini religiosi di più stretta osservanza sembra una passeggiata. E la morte è il nemico mortale di questa religione della salute. Per evitare la morte si corre per strada, nei boschi, si mangiano granaglie e peggio… per arrivare a morire lo stesso, purtroppo».
Tra i tratti “religiosi” del salutismo possiamo annoverare anche il fatto che pratiche come il fumo sono percepite oggi come veri e propri peccati, personali e sociali? O che la bruttezza (avere difetti fisici, essere grassi, ecc.) è spesso squalificante e fonte di imbarazzo?
«Certamente, il peccato è un concetto presente oggi quasi solamente nell’ambito della religione della salute. Perfino in chiesa i parroci sono diventati prudenti a usare l’espressione “peccato”. È una parola che non si pronuncia più volentieri, perché suona dura, sgradevole, molto meglio dire “essersi allontanati dalla via”. Se in Germania uno osserva in quale contesto la parola peccato risuona ancora, si può accorgere che è appunto quello della salute, dove c’è un dio che punisce subito anche i più piccoli peccati… Tutto ciò ha delle conseguenze rilevanti. Se l’uomo autentico è quello sano, allora l’uomo malato, soprattutto malato cronico, diventa un uomo di seconda o terza classe. Il che porta alla discriminazione dei non sani, dei non giovani, dei non belli è dietro l’angolo. E la pressione sociale su queste categorie cresce sensibilmente».
Fonte. Avvenire
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