Di solito un quattro in musica alle medie non è una notizia da prima pagina. Ma la notizia non è il votaccio. È che se una persona seduta in cattedra non sa dialogare con un’alunna su una domanda precisa, ma sposta l’attenzione sulla persona che l’ha posta e sul suo comportamento, c’è qualcosa che non va. E per questo i giornali ne parlano.
Se un’alunna pone una domanda su un “sentito dire” che problema c’è? Da Dio in giù, chi vuole essere ascoltato – e un’insegnante dovrebbe volerlo – prima ascolta. Sì pure Lui, prima di iniziare a dettare i dieci comandamenti con quel richiamo: “… ascolta Israele….”, ha prima l’attenzione di guardare il suo popolo e di ascoltarlo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovraintendenti: conosco le sue sofferenze” (Es 3,7): solo dopo, chiede di essere ascoltato. Perché, da Dio in giù, i maestri fanno così se vogliono comunicare: prima ascoltano e poi chiedono ascolto.
Nei miei ricordi di studente, i dibattiti in classe erano la parte più interessante. Un professore che dava attenzione ad una tua domanda o che moderava una discussione nata spontaneamente tra di noi compagni, era manna dal cielo. Naturalmente le nostre erano domande da tredicenni, ma non significa fossero superficiali: erano da tredicenni.
A tredici anni, tutto quello che sai è perché l’hai sentito dire. Non hai esperienze, non hai nulla se non quello che hai ascoltato: hai solo domande e cerchi risposte.
Le persone che insegnano mi raccontano di domande spassose e a volte anche inopportune fatte dai loro alunni ma da esse, spesso, hanno fatto nascere approfondimenti e una lezione coinvolgente a più voci.
Se sei insegnante e vuoi che ti ascoltino, prima devi saper ascoltare tu.
Battisti e il fascismo è una domanda che renderebbe felice ogni insegnante. Si poteva partire dal fascismo. Cosa vuol dire oggi essere fascista? Chi era un fascista? Vent’anni di storia italiana e il cantautore amato da generazioni cos’hanno in comune? Le domande più belle e più utili non sono quelle che generano altre domande? La fame di cultura non dovrebbe nascere in un tredicenne?
Mi piace parlare del lavoro come vocazione, ci credo profondamente. Lavorare è rispondere ad una chiamata e dare una risposta alla propria vita. Come può la vocazione all’insegnamento non avere risposte? Come può un insegnante non aver desiderio di far emergere altre domande e nuove risposte dai suoi alunni? Mi diceva una mamma che i colloqui più belli con gli insegnanti sono quelli in cui il professore ti parla di tuo figlio e non dei suoi voti. Quelli li leggi sul quaderno o sul registro elettronico. Ma sapere che domande fa in classe, se ride, se alza sempre la mano o dormicchia all’ultimo banco, quello è il bello.
Anche se il quattro fosse giusto, la giustizia non è mai abbastanza con i ragazzi. Con la vita giovane, cioè con la vita, ci vuole la bellezza. E spesso, per intercettarla servono quelle parole che non sono in più, non sono chiacchiere a vuoto, ma qualcosa di profondo che viene in superficie e non è superficiale, non merita una nota di demerito sul registro: è la voglia di raccontare e raccontarsi tutto quello che hai e che senti intorno a te. Un insegnante può dire giusto o sbagliato, dare voti, ma solo dopo. Solo dopo avere ascoltato e dialogato.
Di Don Mauro Leonardi
Tratto da IlSussidiario.net
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