I capi di Stato e di governo hanno dunque scelto il loro candidato alla guida dell’Esecutivo. Il Parlamento europeo voterà a sua volta il 16 luglio e la sua elezione non è in dubbio. Qualsiasi altro sviluppo sarebbe un’immensa sorpresa perché i presidenti dei maggiori gruppi parlamentari, e tra questi i Popolari e i Socialdemocratici, hanno approvato il nome del lussemburghese. La sera dello stesso 16 luglio i membri del Consiglio europeo si incontreranno per un nuovo vertice (una “cena di lavoro” in realtà) per completare il quadro delle figure a capo delle istituzioni comunitarie con almeno due nomi: quello del successore di Herman Van Rompuy come presidente dello stesso Consiglio europeo, e quello di chi assumerà il ruolo di Alto rappresentante per la politica estera, nonché vicepresidente della Commissione, succedendo a Catherine Ashton.
Tenuto conto della riconferma di Martin Schulz in qualità di presidente del Parlamento europeo (avvenuta il 1° luglio a Strasburgo), sembra molto probabile che almeno una di queste personalità sarà una donna e che un altro (o la stessa) verrà da un Paese dell’Europa centrale. Le probabilità per l’Italia di guadagnare un altro posto importante – accanto a quello del presidente della Banca centrale europea – sono minime, ma chissà…
Poi vi sono equilibri politici da rispettare. Così – ad esempio – sarà da escludere che le due figure cercate per completare il quadro provengano dalla famiglia socialista. Nulla di sorprendente in queste considerazioni geografiche e politiche. Esse orientano da sempre la fase cruciale del rinnovamento dei responsabili dell’Unione europea. Si tratta di un esercizio di equilibrismo che caratterizza l’integrazione europea fin dalle sue origini, peraltro non molto diverso dalle pratiche a livello degli Stati membri, soprattutto quando questi hanno un’architettura federale.
Tuttavia, il processo che ha condotto alla scelta di Juncker costituisce una differenza enorme. Dando un’interpretazione ampia del Trattato di Lisbona, sono i partiti politici europei ad essersi imposti ai capi di Stato e di governo nel processo di nomina del futuro presidente della Commissione. Introducendo per le elezioni di maggio il sistema dei capolista, gli “Spitzenkandidaten”, come candidati quasi naturali a questa funzione, l’Unione ha di fatto cambiato passo. D’ora in poi verrà in primo luogo la scelta da parte dei partiti del proprio capolista: saranno poi i risultati delle elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento a indicare al Consiglio il nome di un candidato da presentare al Parlamento europeo per la carica di presidente della Commissione. Il futuro presidente della Commissione dipenderà allora più dal partito o – più probabilmente – dai partiti che convergono per dar vita a una maggioranza al Parlamento europeo. Dipenderà meno dal collettivo intorno al tavolo del Consiglio.
Nelle conclusioni del vertice della settimana scorsa, i membri del Consiglio europeo hanno tentato di riprendere la conduzione del gioco attraverso una formula diplomatica. Una volta insediata la nuova Commissione, essi dicono di voler esaminare “il futuro processo di nomina del presidente della Commissione, nel rispetto dei Trattati europei”. Appaiono tuttavia minime le probabilità che si possa ritornare al punto di partenza. L’opinione pubblica non lo accetterebbe. Il Parlamento non lo potrebbe tollerare. Così, si constaterà con sorpresa che l’Ue avrà cambiato natura politica senza che le disposizioni dei Trattati lo prevedano, senza essersene resi conto e senza che una maggioranza di governo democraticamente eletta lo abbia voluto. È davvero strano.
Tale mutamento di natura comporta tuttavia l’aggravarsi del rischio dell’uscita del Regno Unito dalla “casa comune”. “La piccola Inghilterra sarà sola con le sue ombre”, ha scritto nei giorni scorsi l’ex ministro britannico Chris Huhne su “The Guardian”, evocando la prospettiva dell’uscita del suo Paese dall’Ue. Al suo commento si potrebbe aggiungere: “E l’Unione europea avrà perduto il suo status di potenza mondiale prima ancora di pretenderlo”. Le crisi esterne terranno occupato il nuovo presidente della Commissione quanto il suo predecessore, José Manuel Barroso, è stato monopolizzato dalla gestione dell’euro. Senza il Regno unito, l’Ue si troverebbe seriamente ridimensionata sulla scena internazionale. Di Stefan Lunte per Sir Europa (Francia)
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