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L’ultima cena nella pala di Bouts (XV sec.)

Dieric Bouts, artista fiammingo del XV secolo, realizza nel 1464 una bella Pala del Santissimo Sacramento. All’origine della Pala ci fu la Confraternita del Santissimo Sacramento di Lovanio, capoluogo del Brabante, e il controllo fu severissimo.

Le tesi catare, e quelle proteste che prenderanno corpo di lì a mezzo secolo con la questione luterana, erano più che mai vive e presenti. Così alcuni teologi si preoccuparono che il buon Bouts realizzasse un’opera veramente cattolica. La Pala è il capolavoro di questo artista il quale, benché poco noto, è una delle perle dell’arte fiamminga di quel secolo.

Nell’altare del Santissimo Sacramento il pannello centrale raffigura l’Ultima cena del Salvatore, mentre i pannelli laterali narrano le prefigure dell’Eucaristia: L’incontro di Abramo con Melchisedec; La raccolta della manna; Elia nel deserto che mangia un cibo misterioso e la Pasqua ebraica.

Ci soffermiamo sul pannello centrale, attratti e quasi ridotti al silenzio dalla solenne compostezza degli apostoli. Comprendiamo immediatamente che non si tratta di una mera riproduzione dell’evento cardine dalla vita del Signore, la pasqua vissuta con i suoi nel cenacolo; capiamo che su questa mensa si sono già depositati secoli e secoli di storia e che gli apostoli ora in-segnano il Mistero a noi, che come i due uomini affacciati allo sportello passavivande della parete retrostante, siamo in attesa di godere di questa grazia.

La tavola, considerando l’effetto prospettico, è quadrata. È una tavola già aperta a tutti i popoli, ai quattro punti cardinali; è una tavola che porta con sé il dramma del mistero dell’iniquità. Qui si va sciogliendo, anzi questa tavola è il punto risolutivo di tutte le violenze della storia. Forse per questo c’è una pace immensa sul volto di tutti.

Cristo ci guarda. È l’unico a farlo. Lui del resto è l’unico personaggio metastorico. Gli altri, benché morti nella grazia santificante di Cristo, sono in attesa dell’ultimo giorno, in cui la verità della nostra redenzione sarà evidente, come il lampo che guizza da Oriente ad Occidente. Cristo invece è già vivo ora, la morte non ha avuto alcun potere su lui. Come dice Sant’Agostino egli dà la sua vita ma ha anche il potere di riprendersela, non noi invece.

Noi possiamo solo dare la vita, ma non sappiamo né come, né quando ci sarà restituita. Per questo il Cristo di Bouts, con il suo sguardo acuto, ci assicura che la nostra vita sarà eterna. La sua risurrezione ne è la garanzia. Così, la tavola alla quale siede presenta pochi oggetti, messi in buon ordine, come su un altare. Nelle mani di Gesù, infatti non c’è il pane comune, ma il pane degli angeli, il cibo della vita eterna che la Chiesa addita nell’Eucaristia.

Cristo regge un’ostia e la eleva sopra un calice, mostrandola più che ai commensali a noi che, ad ogni Messa, siamo ammessi a questa stessa mensa. Le labbra socchiuse di Cristo sembrano aver appena pronunciato le parole della consacrazione: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo; questo è il mio sangue: fate questo in memoria di me».

Sorprende come davanti a Gesù ci sia un piatto vuoto. È un piatto da portata e sappiamo essere quello dell’agnello, perché un analogo piatto compare nel pannello della cena pasquale. Qui è vuoto perché Cristo è il vero agnello pasquale immolato per la nostra salvezza. La pasqua che gli apostoli celebrano è solo la promessa di quella vera che sarà consumata di lì a poco sull’altare della croce.

Se Cristo ha in mano l’ostia, e non i pani comuni che stanno davanti agli apostoli, nei calici, poi, il vino è bianco, come prescriveva la norma liturgica di allora (e di oggi) circa il vino da usare nella celebrazione eucaristica. Solo nei primi secoli si celebrava con il vino rosso. Questo cambiamento avvenne, oltre che per questioni di ordine pratico, anche a causa dei miracoli eucaristici e del vino trasformato in sangue: celebrare col vino bianco ovviava a possibili mistificazioni.

Di fronte a Cristo vediamo Giuda. Lo riconosciamo dallo sguardo torvo e dallo sdegno che gli traspare dal volto. Davanti a lui sta un coltello puntato minacciosamente contro il Signore Gesù. Sono solo tre i coltelli della tavola e gli altri due sono davanti agli unici apostoli che vestono abiti fiamminghi. Le forchette non si usavano allora e anche i coltelli erano più un’arma di difesa che posate per la tavola. Il coltello di Giuda, rivolto verso Cristo, annuncia già il suo tradimento e il suo distacco dal disegno di grazia che il Signore stava rivelando. Così anche gli altri coltelli, uno rivolto verso Gesù e l’altro rivolto verso Giuda, sono un riferimento a quanti difendevano o si dissociavamo dall’istituzione del Corpus Domini e dalla sua diffusione in tutta la Chiesa universale.

Di fronte a un tale dipinto gli antichi membri della Confraternita fiamminga del Santissimo Sacramento imparavano le norme liturgiche, capivano come stare davanti al Mistero Eucaristico ed erano invitati a confrontarsi non solo con Giuda, ma anche con gli altri commensali per chiedersi come stavano davanti alla realtà. Ognuno di noi nella vita ha un coltello puntato; ieri come oggi ci chiediamo: «Verso quale direzione punta la lama?».

Nel pannello della Pasqua ebraica il coltello è uno solo ed è quello che il pater familias affonda nel corpo dell’agnello. Sì, Cristo è l’Agnello immolato che ha preso su di sé le lame dei coltelli dell’odio, affinché l’uomo non ferisca e non si ferisca, colpendo soprattutto ciò che non può né conoscere appieno, né giudicare convenientemente mentre vive nelle anguste prospettive di questo mondo. *

*Il servizio ci è stato segnalato dalla sorella Antonella Iasi 🙂

 

 

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