L’ultimo bimbo miracolato da Padre Pio. A 7 anni Matteo Colella fu salvato con un sogno. Oggi assiste i disabili
Matteo Colella aveva 7 anni e quel 20 gennaio 2000 era a scuola, senza voglia particolare di stare sui libri. Non aveva mai dato problemi di salute. Quella mattina faceva freddo, aveva mal di testa, non voleva fare il breve tragitto da casa alla scuola elementare di San Giovanni Rotondo, il paese suo e di padre Pio.
La mamma, Maria Lucia Ippolito, insegnante in un istituto professionale, non gli diede ascolto: chissà quante altre volte aveva sentito capricci del genere. Ma verso le 10 ricevette una telefonata, e poco dopo anche suo marito Antonio, chirurgo urologo nella Casa sollievo poco lontana dal santuario di padre Pio. Dovevano correre a scuola perché Matteo stava male.
È la storia del ragazzo miracolato dal frate di Pietrelcina.
Un bimbo come tanti, senza particolare trasporto per le cose di religione, che d’improvviso cade in coma e riceve una grazia che altri hanno chiesto per lui. Le maestre si erano spaventate perché era svenuto sul banco. A casa si era ripreso ma la febbre non se ne andava. Sembrava un’influenza di stagione. A sera Matteo cominciò a farfugliare e avere allucinazioni. Accorsero un pediatra e un altro medico. Si decise il ricovero: il ragazzino arrivò all’ospedale di San Giovanni Rotondo sotto shock mentre il corpo si riempiva di petecchie. La diagnosi fu gravissima: meningite batterica fulminante. I medici non avevano speranze: quando compaiono macchie scure sempre più grandi si va verso la morte.
In un momento di lucidità Matteo chiese del papà, volle da bere poi aggiunse: «Quando divento grande voglio diventare ricco per dare tutto ai poveri». Poi perse coscienza e fu portato in rianimazione. In poche ore l’infezione aveva compromesso 9 organi vitali: la medicina internazionale, ricorda la mamma nel libro in cui ricorda quei drammatici giorni («Il miracolo di padre Pio», Mondadori), parla di morte quando se ne arrestano 5. Verso le 9,30 del 21 gennaio il cuore di Matteo Colella si fermò. I tentativi di rianimarlo furono inutili. Dopo un’ora, mentre i medici si toglievano guanti e mascherine, una dottoressa sussurrò al primario di fare un ultimo tentativo. «Va bene rispose lui ma qui ci deve mettere le mani padre Pio». A Matteo fu praticata un’iniezione di adrenalina. E il cuore riprese a battere.
Il bimbo viveva ma non si svegliò. Per 11 giorni rimase in coma attaccato alle macchine. I medici scuotevano la testa: se anche si fosse destato, un’ora di arresto cardiaco e il coma prolungato avrebbero prodotto danni cerebrali irreversibili. Una persona non credette loro: la madre di Matteo. «Mi precipitai sulla tomba di padre Pio e bussai a ogni convento del paese – ha raccontato -. Mio padre conosceva il frate e andava a trovarlo, implorai non la guarigione, perché i miracoli li fa Dio, ma un’intercessione, come Gesù con Lazzaro».
Nei giorni di coma la donna non poté mai avvicinare il figlio in isolamento. Il mattino del 31 gennaio Antonio Colella chiamò la moglie e le disse di correre in ospedale che Matteo si era svegliato. Non parlava perché tracheostomizzato: con il labiale fece segno di volere un ghiacciolo alla coca cola, il suo gelato preferito. La madre gli mise in mano anche un’immaginetta di padre Pio e il ragazzino sgranò gli occhi. Quando più avanti poté parlare, raccontò di aver visto nel coma un frate con la barba bianca e il vestito marrone. Il tizio dell’immaginetta. I medici non capivano: il bimbo non dovrebbe essere vivo e comunque non dovrebbe star bene. Invece dopo due giorni Matteo giocava nella rianimazione con la playstation, senza un segno di necrosi dei tessuti.
Il miracolo fu riconosciuto dalla commissione medica incaricata dal Vaticano e spianò la strada verso la canonizzazione di padre Pio. Il 16 giugno 2002 il frate delle stimmate fu proclamato santo e il ragazzino miracolato ricevette la prima comunione in piazza San Pietro durante la messa presieduta da Giovanni Paolo II. Oggi Matteo Colella ha 25 anni, studia psicologia, è fidanzato e lavora nel sociale: fa terapia in acqua con ragazzi disabili, autistici o con disturbi intellettivi o relazionali. Aiuta gli altri, sta vicino a chi è stato meno fortunato di lui. E realizza l’aspirazione a «diventare ricco per dare tutto ai poveri» espressa quando era tra la vita e la morte.
di Stefano Filippi per il Giornale on line