Ma l’Europa è solo una ‘potenza civile’

Ci si può e, forse, ci si deve lamentare del fatto che non si è sentito quasi nulla da parte dell’Unione europea, ma anche dai rispettivi Stati membri, riguardo alle crisi e alle guerre che di nuovo scuotono il Medio Oriente. Questo silenzio è in evidente contrasto con il sostegno entusiasta alla “primavera araba”, che fino a poco tempo fa nutriva in Europa la speranza che le società nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo si sarebbero liberate con un atto di auto-pulizia dai governi dispotici e dai partiti che li sostenevano per entrare finalmente in un processo di democratizzazione.

Tuttavia, già allora era subentrata una certa distanza e poi un indietreggiamento rispetto agli impegni promessi o annunciati

, per il sopraggiungere di una graduale disillusione circa gli sviluppi effettivi, sempre più distanti dagli ideali dei promotori di questo movimento di riforma. Anche l’entusiasmo e la relativa voglia di sostenere gli insorti non erano stati condivisi da tutti gli europei. La diversa valutazione sulla direzione e le possibilità della “primavera araba” in Siria, che ha ispirato la resistenza contro il sistema dominante in Tunisia, Libia ed Egitto, ha portato a una paralisi quasi totale dei cittadini europei. Era ormai fuori discussione un sostegno attivo alla rivolta in Siria, che invece avrebbe così forse potuto raggiungere in breve qualche effetto. E sebbene all’inizio la simpatia degli europei nel conflitto siriano fosse chiaramente orientata, i loro politici non sono stati in grado di agire, a causa di altre esperienze negative nei Paesi arabi.

Da allora la situazione in Medio Oriente è peggiorata notevolmente. Il conflitto siriano tra una parte della società civile e il regime si è in fretta trasformato in una guerra civile e, soprattutto da quando le forze islamiste hanno avuto il sopravvento a fianco dell’opposizione, è degenerato da entrambi i lati in un’amara guerra di sterminio; contemporaneamente, sfruttando le divisioni intra-politiche e le tensioni tra sciiti, sunniti e curdi, con l’avanzata dello “Stato islamico” è traboccato in Iraq. A ciò si è aggiunto il conflitto israelo-palestinese, scatenato da nuovi attacchi missilistici da parte dei radicali di Hamas su Israele e diventato una guerra distruttiva.

C’è da dubitare se l’Europa possa contribuire in maniera significativa a risolvere i problemi complessi, condizionati storicamente ed etnicamente, sovraccaricati ideologicamente e religiosamente, che stanno alla base di conflitti, crisi e guerre in Medio Oriente. L’Europa non ha a disposizione strumenti di potere. Nessuno dei Paesi che oggi fanno parte dell’Unione europea è una grande potenza, anche se alcuni di questi Paesi – come la Francia e il Regno Unito – hanno conservato in riferimento al proprio passato alcuni riflessi-da-superpotenza. Quando però il governo britannico aveva deciso di sostenere militarmente l’opposizione al terribile regime in Siria, il Parlamento ha posto il veto, generando così in Europa la sensazione diffusa che tale impegno non valeva la pena, che non avrebbe potuto produrre niente di buono o addirittura avrebbe peggiorato la situazione nella regione in questione.

Buone ragioni sostengono quest’atteggiamento che ha portato a sviluppare in Europa una “cultura della moderazione”. Non incoraggiano gli esempi dei molti sforzi intrapresi dall’America per mediare tra le parti in conflitto o per intervenire nella pacificazione di situazioni di conflitto nel Vicino e Medio Oriente e che sono completamente falliti. Supporre che gli europei farebbero meglio degli americani, se solo trovassero la volontà di impegnarsi, è un’illusione. Il fallimento delle varie iniziative americane, a sostegno delle quali in molti casi hanno partecipato anche gli europei (Israele, Afghanistan o Iraq) dipende evidentemente dalla particolarità delle singole situazioni e delle parti in conflitto.

Da molti punti di vista, l’Unione europea con i suoi 28 medi e piccoli Stati membri è una superpotenza. Ma l’Unione europea non è una superpotenza per quel che riguarda la politica estera e di sicurezza. Manca un’identità solida. Ha iniziato a costruire un proprio servizio diplomatico solo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, alla fine del 2009. Il vice-presidente della Commissione europea che svolge il servizio di alto rappresentante della politica estera e di sicurezza europea non può nemmeno chiamarsi ministro degli esteri onde evitare l’impressione che questa funzione corrisponda a quella dei ministri degli Esteri negli Stati membri. Poiché le decisioni e le iniziative dell’Ue in politica estera e di sicurezza sono tuttora di competenza degli Stati membri, che devono ogni volta mettersi d’accordo. In queste circostanze, non bisogna chiedere troppo all’Unione europea attribuendole un ruolo che non può sostenere. L’Unione europea è consapevole di essere una “potenza civile”, la cui importanza internazionale dipende in larga misura dal fatto di rinunciare all’uso dei classici strumenti o metodi delle grandi potenze. Non appena i cannoni tacciono, può – come è già stato dimostrato in passato – essere utile quale potenza civile nelle zone in crisi e in guerra del Medio Oriente, ad esempio nella ricostruzione, nello sviluppo e nell’istruzione, e non da ultimo per il fatto che è un esempio di come un conflitto portatore di morte possa diventare convivenza pacifica e fruttuosa.

Di Thomas Jansen per Agensir

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