Una lunga escursione storico-teologica sul “grido dell’ora nona”, che per certi versi sembra essere diventato un luogo a-teologico utile al “dialogo” coi non credenti. In realtà, difficilmente quel tema può essere usato come zona franca con chi non ha la fede, essendo un punto su cui anche alla fede è richiesto un salto immenso. La storia di quest’esegesi, qui ricapitolata per accenni, sembra provarlo.
Chi nel pomeriggio di oggi andrà alla funzione del Venerdì Santo non lo riascolterà, perché il racconto del quarto evangelista (che nel rito romano costituisce sempre il Passio del venerdì) non lo riporta, ma il “grido dell’ora nona” («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Sal 22,2; Mt 27,46; Mc 15,34) sembra essere diventato un luogo teologico di enorme importanza, stando a quanto si legge nei libri e si sente ripetere dagli amboni.
“Gesù abbandonato” è il tema drammatico, e “Gesù abbandonato dal Padre” è il picco tragico di quella che Hans Urs von Balthasar chiamava la “teodrammatica”: il teologo di Lucerna ha sviscerato questo tema in centinaia di pagine sparse in diverse opere, ma soprattutto nei cinque volumi della Teodrammatica (e segnatamente nel quinto), e nella Teologia dei tre giorni. Tanta e tale è la mole di pensiero accumulata sull’argomento dallo Svizzero che non è possibile, ormai, trattare accademicamente l’argomento senza passare per i suoi libri.
Però noi non siamo in un contesto accademico, ed è anzi vero che spesso i contributi accademici non determinano il “sentiment” di un argomento (e perciò neppure lo esprimono): in parole povere, il “Gesù abbandonato dal Padre” di Von Balthasar è lo stesso di cui sentiamo predicare in parrocchia? Per la massima parte dei casi, direi di no. Ecco perché qui terminano oggi i miei riferimenti al grande poligrafo della teologia novecentesca.
L’ombra della polemica
E c’è poi un’altra cosa, che a suo tempo fu Antonio Livi a mettere in luce (in Vera e falsa teologia), ovvero quell’impostazione ideologico-ecclesiale
che consiste nel ridurre tutta la pastorale al problema di come rendere la Chiesa “accettabile” presso gli esponenti della cultura soggettivistica e relativistica, considerati (senza alcuna seria indagine di sociologia della cultura) l’espressione fedele e unica di quel “mondo moderno” cui l’annuncio del Vangelo deve adattarsi.
Non intendo minimamente intromettermi in quella titanomachia che per la mia statura è la polemica tra Ravasi e Livi (e di Venerdì santo, poi!): osservo solo che da una parte comprendo molte delle osservazioni del Monsignore; dall’altra non mi risulta che quella dell’abbandono di Gesù sia una “bizzarra idea” del Cardinale. Scrisse infatti Livi:
L’appiglio per questa assurda teoria teologica è il grido di Gesù in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 33-37), che da quasi un secolo è oggetto di interpretazioni arbitrarie, che tuttora permangono nei discorsi di molti autori, anche se altri teologi più seri e competenti le hanno esaurientemente smentite. È stato detto e ridetto che Gesù in croce recita le prime parole del salmo 22, e che l’usanza ebraica era di indicare tutto il componimento sacro con le parole dell’incipit. Ora, il salmo termina con una preghiera di commosso affidamento alla protezione divina. La frase di Gesù, anche dal punto di vista testuale, non prova affatto che Egli si sentisse davvero abbandonato da Dio. Oltretutto, continuando a leggere il racconto della Passione, vediamo che Gesù si rivolge al Padre con un personale e ed esplicito atto di affidamento e con il vivo sentimento della sua vicinanza: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito».
Mi pare che il consueto rigore ferrato di mons. Livi ceda un po’, qui, ai capricci di un argomento sdrucciolevole: la storia dell’“usanza ebraica” sa di posticcio (un po’ come la famosa “spiegazione” di Gv 2,4, ma tralasciamo…) e non mi risulta che si possa sostenerla con appigli più concreti di “studi specialistici” (ho letto articoli accademici che volevano convincermi che l’aceto dato a Gesù fosse una bevanda dissetante!). A parte questo, è probabile che Gesù abbia citato qualche altro versetto del salmo, in croce (Lc 23,46, ad esempio, riporta le parole dell’altro “forte grido” attestato da Mt, ma non il primo), e se anche fossero parole del salmo 31 o del salmo 15, come sembra, il loro senso sarebbe sempre quello di un fiducioso affidamento a Dio; ma mons. Livi sa bene che se la sinossi teologica può essere un legittimo momento teoretico, non per questo è metodologicamente corretto importarne le conclusioni nei singoli vangeli. Matteo e Marco non citano il grido citato da Luca e quest’ultimo non menziona quello ricordato dai primi due. Espongono letture teologiche che certamente devono risultare complementari, ma che sono in principio et in fine differenti.
In realtà, però, e poiché la mia specializzazione è in teologia antica, ho trovato stuzzicante l’annotazione per cui queste teorie bislacche (e mons. Livi ha ragione: davvero si leggono cose imbarazzanti, in merito!) vivrebbero da meno di un secolo in qua. Poiché sono un devoto ascoltatore delle Passioni di Bach, specialmente in Quaresima, volo con la memoria al punto della “Grande Passione” (quella secondo Matteo, ben più lunga di quella secondo Giovanni) in cui il tenore che impersona l’Evangelista traduce la citazione ebraica di Gesù: niente, neanche una parola sull’“abbandono di Dio”. Forse Livi ha ragione, mi dico: la sensibilità teologica di Bach è al contempo esemplare e straordinaria – se neanche lui dedica un corale a un tema che pensiamo così fondamentale… magari il suo sviluppo è davvero più recente di quanto pensiamo.
Neppure sarebbe un problema, né una cosa simile avverrebbe per la prima volta: anzi è fatale che non solo le singole persone siano colpite in particolare da questo o quell’aspetto della dottrina cattolica – e che convertendosi al cristianesimo per questo o quel motivo particolare si sviluppino i “carismi” ecclesiali – ma che pure le situazioni geopolitiche e le stesse epoche abbiano i loro “versetti preferiti”. Basti pensare a quanto il prologo di Giovanni sia stato martellato durante la crisi ariana nel IV secolo, o a quanto siano stati consunti i versetti dell’orazione nel Getsemani lungo la disputa monotelita (e a proposito, ancora Bach, e in entrambe le Passioni, dedica magnifici corali alla volontà umana di Cristo che si conforma alla volontà divina comune alle tre Persone).
Insomma, si potrebbe sintetizzare la lezione di Albert Schweitzer sulla “first quest” con l’adagio “in ogni critica c’è un’autobiografia”. E poiché l’esegesi è, a suo modo, una critica (testuale), si può ben dire che in ogni esegesi c’è un’autobiografia. La qual cosa da un lato ridimensiona certe pretese, mentre dall’altro le riveste di un interesse nuovo (e più legittimo).
Una carrellata sugli autori moderni
Che dovremmo dire, altrimenti, di Friederich Schleiermacher, che rifuggiva con orrore il grido dell’ora nona e anzi lo dichiarava necessariamente inautentico (argomentando ciò con la bizzarra presa di posizione per cui l’“intera Gemüthsstimmung [impostazione generale di pensiero, N.d.T.] di Cristo” si evincerebbe solo dai discorsi riportati da Gv [sic!])? Accadeva nel 1864, e pare quindi che la “febbre teologica dell’ora nona” si sia accesa perlomeno un po’ più di un secolo fa.
Prima ancora di lui, del resto quel prete mezzo eretico di Félicité de Lamennais scriveva, nel suo Saggio sull’indifferenza in materia di religione (notare che questi “eretici dialoganti” erano tutti degli apologeti riluttanti):
E quando vengo a considerare la sua vita, le sue opere, la sua dottrina, questo insieme così meraviglioso di grandezza e di semplicità, di dolcezza e di forza, quest’incomprensibile perfezione che mai si smentisce, né nell’intima confidenza della familiarità né nella solennità degli insegnamenti che rivolgeva al popolo intero; né nell’allegria delle nozze di Cana né nell’angoscia del Getsemani; né nella gloria del suo trionfo né nell’ignominia del suo supplizio; né sul Tabor, avvolto dallo splendore, né sul calvario, ove spira abbandonato dai suoi e lasciato solo dal Padre, fra sofferenze indicibili e in mezzo al furore e allo scherno dei suoi nemici: quando contemplo questo grande prodigio che il mondo ha visto una sola volta e che ha rinnovato il mondo, non mi domando più se il Cristo fosse Dio e, piuttosto, sarei tentato di chiedermi se fosse un uomo.
Ma lo stesso chiariva, in un’altra opera (Parole di un credente), che l’abbandono del Padre non sarebbe stato reale:
O Padre! Tu non hai abbandonato tuo Figlio, il tuo Cristo, se non apparentemente e per un solo momento; non abbandonerai dunque mai nemmeno i fratelli del Cristo.
Eravamo qui nel 1836, e già nella primavera di quattro anni prima don Antonio Rosmini (ormai un “ex eretico”, via!) rispondeva a una lettera di don Luigi Gentili in cui gli si chiedevano lumi sull’abbandono di Gesù da parte del Padre: la risposta è troppo tecnica per essere riportata qui, anche se i detrattori di Rosmini resterebbero stupiti a toccare con mano non solo lo zelo pastorale che trasuda la lettera, ma anche lo scrupolo intellettuale di non allontanarsi dall’ortodossia (e in particolare dalla lezione di san Tommaso d’Aquino!).
Ma veniamo al Novecento, senza dubbio il secolo che, nella storia, più si è appassionato al grido dell’ora nona. Una parola molto eloquente sull’argomento la scrisse Theodor Haecker, che ai più dirà qualcosa quando lo si sarà presentato come mentore di Hans e Sophie Scholl, i ragazzi della Rosa Bianca:
Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Come può qualcuno essere e rimanere Dio dopo queste parole?, chiese uno. Figlio, in senso umano, di Dio sì, poiché un padre può abbandonare il figlio. Allora però tutto è molto umano. Ma questo figlio non è uguale al padre secondo l’essenza?! Sono allora destinate affettivamente alle orecchie dell’uomo queste parole? Visto che l’uomo non le può capire! Eppure esse vennero pronunciate ed esse non esprimono niente di meno che una disperazione. Però una disperazione del tutto particolare. Alcuni interpreti non credenti hanno pensato che con queste parole Cristo abbia abbandonato Dio e quindi la fede in Lui. Di tutto ciò non vi è nulla in quelle parole, nulla di ateo, nulla del tipo: egli non è Dio, oppure: Dio è morto. No: Dio è! Ma… Egli mi ha lasciato! Questo trascina in un mare di pensieri senza pace, ai quali può offrire tranquillità solo la pace di Dio e… la risurrezione, dopo la quale Dio non abbandonerà più nessuno.
Era il 3 aprile del 1942, venerdì santo. Hans Jonas avrebbe scritto, di lì a poco, Il concetto di Dio dopo Auschwitz: si capisce che nel “Secolo Breve” stava accadendo qualcosa di smisurato e di insostenibile per la coscienza della civiltà occidentale.
Sarà un caso, però trovo che le pagine dedicate al “grido dell’ora nona” nel secondo dopoguerra – ma si escludono dal novero le monumentali opere che ho ricordato all’inizio – siano sempre più annacquate, sempre più scialbe, vaporose e superficialmente evocative: quella teologia tutta sentimento e suggestione contro cui (giustamente) si scaglia Livi nei suoi lavori. Oh, quanto piace, in certi ambienti, ripetere che “Gesù visse l’ateismo”. Luigi Pareyson, per dirne uno, ha sbrodolato decine e decine di pagine su questo, riducendo il cristianesimo da lui auspicato a un “pensiero di Dio”. Grazie, ci teniamo quello che c’è…
E tuttavia Pareyson è uno dei migliori (e dei più pericolosamente seducenti): la fuffa che si può leggere in certi passaggi di altri, come Ferdinand Ebner, invece, dà conto esatto del vicolo cieco in cui un’intuizione apparentemente profonda rischia di cacciare il pensiero della fede che si pensa.
Proprio questo grido spezza l’ultimo vincolo che incatena lo spirituale nell’uomo. […] Questo grido sembra quasi la revoca di tutto ciò che Gesù ha detto nel corso della sua vita relativamente al suo rapporto con Dio e tuttavia, proprio per tale motivo, esso costituisce la liberazione dell’uomo, di ogni uomo di tutti i tempi, verso la sua autentica vita spirituale. […] Soltanto il singolo può decidersi per la fede. […] La fede è l’inserzione dell’essere personale nella vita.
Soprattutto l’individualismo che promana da queste considerazioni deve metterci in guardia: altro è riaffermare la dimensione personale della fede, altro è farne una faccenda intimistica e privata. Proprio perché è personale, la fede cristiana è sempre comunitaria: è stato il cristianesimo a donare al mondo il concetto di persona – non possiamo lasciarlo storpiare in quello di individuo.
Ma per fortuna il Novecento non ci consegna solo pagine pericolose o irrilevanti, sul grido dell’ora nona: due donne mi sembrano aver colto (la tedesca meglio della spagnola) i delicati percorsi di verità di cui è innervata l’intuizione moderna su questo luogo teologico. La prima è María Zambrano, che in L’uomo e il divino scrive:
Questo momento dell’ateismo che sente l’indifferenza della divinità avrà il suo esaurimento nel Calvario, quando Cristo, il Figlio di Dio, si sente abbandonato da Lui. In questo paradosso che estenua la disperazione si aprirà il cammino dell’accessibilità: Dio si è reso accessibile solo dopo aver permesso a suo figlio di sentirsi abbandonato.
Ove il “dove” va inteso in senso ontologico, non cronologico: Dio è stato accessibile in tutta la storia non “da quando”, bensì in quanto il Figlio in quell’ora si sarebbe sentito abbandonato – quella è “l’ora della gloria”, direbbe Giovanni. Così come l’ariete di Abramo e l’agnello della pasqua ebraica hanno un vero valore sacrificale ed espiatorio perché sono figura della morte di Cristo. «Dio stesso – profetava misticamente Abramo al figlio, già figura di Cristo mentre saliva il monte con la legna sulle spalle – Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto» (Gen 22,8).
L’altro testo è di Edith Stein, è una pagina sublime di Scientia Crucis, il saggio che l’ebrea carmelitana scrisse durante il suo soggiorno nel Carmelo olandese di Echt. È uno studio sulla teologia mistica di san Giovanni della Croce. Non so dire, così su due piedi, quanti testi esistano scritti da Dottori della Chiesa sulla dottrina di altri Dottori della Chiesa. Questo è uno di quelli.
In quest’ora tragica, oppresso da inenarrabili tormenti nell’anima e nel corpo, soprattutto durante la terribile notte dell’abbandono da parte di Dio, Egli paga alla Giustizia divina il prezzo dell’ammasso di peccati accumulati da tutti i tempi. Apre così le chiuse di deflusso alla misericordia del Padre in favore di tutti coloro che hanno il coraggio di abbracciare la Croce e la Vittima su di essa immolata.
Suor Teresa Benedetta della Croce stava per essere rapita e assassinata dai nazisti. Si sente la differenza tra chi “chiacchiera” della croce e chi dà voce alla sua parola muta e adorabile.
Con quest’ultima autorità (lasciata in ultimo a mo’ di un tomistico “sed contra”) penso di poter affermare che il grido dell’ora nona ha diritto di cittadinanza nella dottrina cristiana. Ma poiché una verità di fede rivelata può ben svilupparsi nella storia, quanto alla sua formulazione, ma mai può inventarsi dal nulla, bisogna che essa sia rintracciabile da qualche parte nel grande fiume della Tradizione cristiana. Limiti di spazio e di tempo mi impongono di costringere quel che resta dell’argomento, quindi torno al mio primo amore teologico, ad Agostino, e chiedo a lui una parola sull’abbandono di Gesù in croce.
La lezione di sant’Agostino
Ci spostiamo quindi dal XX al V secolo, e scendiamo dalle rovine fumanti dell’Europa totalitaria alle glorie ecclesiali dell’Africa cristiana. Come bisognava aspettarsi, Agostino risolve la difficoltà di quella citazione (decisamente problematica per Dio stesso, che difficilmente può “abbandonarsi”) con la dottrina del “Christus totus”, già lungamente collaudata da Origene, prima di lui, ed esportata in Occidente da Ambrogio, Girolamo, Rufino e tanti altri. In che consiste? Semplicemente nel prendere molto sul serio san Paolo, che in diversi punti (essenzialmente 1Cor 12,12-13.20.27; Col 1,18.3,15; Ef 1,22-23.2,16.4,4; Rom 12,4-5) afferma l’unione mistica tra Cristo e la Chiesa. Ciò che quindi Cristo non può dire come capo del corpo, perché chiaramente inadeguato alla natura divina, lo dice come corpo per il mistero [e Agostino, come le traduzioni latine di Paolo, usa qui volentieri la parola “sacramentum”!] dell’incarnazione. Ma detta così può sembrare poco più di un espediente cervellotico per risolvere una difficoltà esegetica. E ci perderemmo una gran cosa. Leggiamo Agostino, il quale come Rosmini rispondeva anch’egli a un amico (Onorato) che gli aveva posto la domanda sullo spinoso argomento:
Era dunque tuo desiderio che ti esponessi e ti spiegassi per scritto – come mi hai ricordato – il significato dell’esclamazione del Signore: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» […] Col linguaggio dunque della nostra infermità, che il nostro Capo aveva fatta sua, Egli esclama in questo punto del salmo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» […] Gesù fece sua questa voce, che è la voce cioè della sua Chiesa che doveva essere trasformata dall’uomo antico in quello nuovo, la voce cioè della sua debolezza umana, cui dovevano essere negati i beni dell’Antica Alleanza, perché imparasse ormai a desiderare e a sperare i beni della Nuova Alleanza. […] Che senso ha dunque l’espressione “Perché mi hai abbandonato?”, se è detto che non distolse il volto dal povero, se non che non ci abbandona neppure allorché ci abbandona non esaudendoci in rapporto ai beni temporali; e lo fa per non farci diventare stolti, perché si sappia che cosa ci toglie e che cosa ci dona? «Non disprezzò – dice – né rigettò la preghiera del povero né distolse il suo volto da me e, quando alzai a Lui il mio grido, mi esaudì». [Dio] fece dunque ciò di cui poco prima era stato pregato, quando [Cristo] nella sua preghiera aveva detto: «Non ti allontanare da me». Se lo esaudì, fece di certo ciò che domandava e perciò non si allontanò affatto. Non lo abbandonò dunque Colui che lo abbandonò in un altro modo, per farci capire piuttosto la maniera con cui dobbiamo non volere essere abbandonati.
La lettera è l’opera di Agostino dedicata in più larga misura all’argomento, ma per comprenderla appieno bisognerebbe avere molti elementi di contesto (è molto condizionata dalla polemica pelagiana, allora in corso). Nel IV libro del De civitate Dei, invece, il vescovo di Ippona scrive:
Ecco dunque che la nostra duplice morte il Salvatore ha pagato con una sola morte da parte sua, e per procurare a noi la risurrezione del corpo e dell’anima ha preposto e proposto come sacramento ed esempio una sola risurrezione da parte sua. […] Rivestito di carne mortale, non morendo che per essa, non risuscitando che per essa, per essa sola si mise in armonia con noi per la morte e la risurrezione, facendosi in essa sacramento dell’uomo interiore e modello di quello esteriore. Al sacramento del nostro uomo interiore si riferisce, per significare la morte della nostra anima, quel gemito di Cristo non solo nel Salmo, ma anche sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». A questo grido corrisponde bene la parola dell’Apostolo: «Sapendo che l’uomo vecchi nostro è stato crocifisso con lui, affinché fosse distrutto il corpo del peccato in modo da non essere più schiavi del peccato» [Rom 6,6].
Questa storia del “sacramento” va intesa bene, perché è la chiave per capire le ragioni mistiche di san Giovanni della Croce e di Edith Stein: in origine le parole sono imparentate, perché “sacramentum” traduce “μυστήριον” (mystèrion), e il verbo “μύω” (myo), “tacere”, sta all’origine della “mistica”. Solo che siamo abituati a pensare alla “mistica” come a una cosa sentimentale e simbolica, puramente evocativa. Sbagliato, ed Edith Stein non sarebbe entrata nella camera a gas come nella settima stanza del Castello Interiore di Teresa d’Avila, se avesse dovuto farlo sentimentalmente e per pura allegoria. Agostino torna sulla questione commentando il Salmo 70:
Diremo dunque che Dio effettivamente abbandonò Cristo, mentre Dio era nel Cristo al fine di riconciliare a sé il mondo? mentre sappiamo che Cristo è Dio, e, sebbene nato dai giudei secondo la carne, egli è al di sopra di ogni cosa Dio benedetto nei secoli? Dio lo avrà dunque abbandonato? Non sia mai! Quella era la nostra voce, la voce del nostro uomo vecchio, quello che è stato crocifisso insieme con lui. Egli, infatti, aveva ricevuto il corpo dalla nostra umanità invecchiata, in quanto Maria discendeva da Adamo. Ebbene, ciò che essi credevano, egli lo disse dalla croce, esclamando: «Perché mi hai abbandonato?»
Ma l’unione mistica, dicevamo, non è roba da beghine: è ciò che san Paolo evoca per descrivere il matrimonio (e la contestuale unione sessuale). Agostino se ne ricorda bene quando commenta il Salmo 37:
Non v’è quindi dubbio che le parole che seguono, laddove egli dice: «Le parole dei miei peccati», sono voce di Cristo. E donde derivano allora i peccati, se non dal Corpo, che è la Chiesa? Chi parla dunque è il Corpo ed il Capo di Cristo. Perché parla come se fosse uno solo? Perché «saranno, dice, due in una carne sola. È questo un grande mistero, aggiunge l’Apostolo, e io lo dico riguardo al Cristo e alla Chiesa».
Cristo dunque parla realmente di abbandono perché fin dall’incarnazione ha assunto l’abbandono cui Adamo si è condannato per aver abbandonato Dio: la croce è il momento della resa dei conti, come spiegava l’alto Magistero di Edith Stein. Mai quindi “Dio si è abbandonato”, come vorrebbero i vaneggiamenti parateologici alla Pareyson. Agostino lo precisò commentando il Salmo 49:
Quando mai il Padre ha abbandonato il Figlio, o il Figlio il Padre? Non è forse un solo Dio, il Figlio e il Padre? Non sono forse verissime le parole: «Io e il Padre siamo uno solo»? Perché allora disse: «Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», se non perché, nella carne della debolezza, si manifestava la voce del peccatore? Colui che aveva assunto la figura della carne del peccato, perché non avrebbe assunto anche la forma della voce del peccato? Era occulto dunque il Dio degli dèi. Quando camminò tra gli uomini, quando ebbe fame e sete, quando sedette stanco, quando dormì affaticato nel corpo, quando fu catturato, flagellato, trascinato dinanzi al giudice, quando rispose al superbo: «Non avresti potere contro di me, se non ti fosse stato dato dall’alto»; quando fu condotto al sacrificio e non aprì la sua bocca dinanzi al tosatore, quando fu crocifisso e fu sepolto: sempre occulto era il Dio degli dèi.
Era “occulto” il Dio degli dèi, dice Agostino. Perché naturalmente il Figlio di Dio era impassibile alla morte e tantomeno al peccato. Ma l’incarnazione non fu uno scherzo e costò sangue perfino allo spirito umano di Cristo, che dalla persona del Figlio era retto ma che realmente ospitava in sé le nature umana e divina entrambe vere e complete – e in quella umana raccolse tutto il peccato del mondo. Per questo Agostino – che in altri passi spiega come Cristo in quel momento abbia trasfigurato i nostri peccati – chiosa ancora, nel commento al Salmo 58:
Dio di fatto non aveva abbandonato Cristo, come Cristo non aveva abbandonato Dio. Che, forse, Cristo era venuto a noi abbandonando Dio? O, viceversa, Dio lo aveva, forse, mandato allontanandosi da lui? Ma, poiché l’uomo era stato abbandonato da Dio (Adamo, che era solito godere della presenza di Dio, dopo il peccato rimase spaventato dalla coscienza della colpa e fuggì lontano da colui che costituiva la sua gioia) e Dio lo aveva veramente abbandonato in quanto egli per primo aveva abbandonato Dio; per questo motivo il Cristo (che aveva ricevuto la carne da Adamo) disse tali parole nella persona della sua carne, poiché allora il nostro vecchio uomo era inchiodato alla croce insieme con lui.
Ecco.
Ecco l’Agnello di Dio.
Fonte it.aleteia.org/Giovanni Marcotullio
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