Domani 15 luglio si tiene in Russia una giornata in memoria dei medici e del personale sanitario che hanno perso la vita a causa del coronavirus, sacrificandosi per il bene di tutti.
Fonte asianews.it – di Vladimir Rozanskij
A San Pietroburgo, ad aprire la lista di 56 “martiri della pandemia” è un personaggio molto noto e amato, la professoressa di chirurgia Nina Artemeva, consacrata col nome monastico di madre Anastasia, scomparsa lo scorso 8 giugno per il Covid-19. Fedele fino all’ultimo alla sua doppia vocazione, Nina-Anastasia è morta mentre si prendeva cura delle monache e delle persone ammalate nel monastero di San Giovanni a Karpovka.
Pur essendo molto conosciuta, le notizie su madre Anastasia non si trovano su Wikipedia, o su altri siti internet. La donna non ha mai rilasciato interviste, poiché non riteneva straordinaria la sua vita
, neanche quando continuava a eseguire delicate operazioni chirurgiche in veste monastica ortodossa. Come in molti altri monasteri russi, la liturgia pasquale a Karpovka è stata celebrata in piena presenza di religiosi e laici, col risultato di una generale infezione di coronavirus, a cui la madre 84enne ha cercato di porre rimedio in qualche modo, prima di essere lei stessa ricoverata in terapia intensiva, dove si è arresa proprio il giorno di Pentecoste.Nata nel 1936, a Uljanovsk, la città di Lenin, Nina sognava fin da bambina di diventare dottore. Trasferita a Leningrado, concluse gli studi di medicina, sposandosi con Nikolaj, un compagno di studi. Mentre finiva la specializzazione in chirurgia, mise al mondo un figlio, anch’egli Nikolaj (v. foto 2, Nina col figlio). Il marito mal sopportava il desiderio di Nina di continuare la carriera scientifica, e presto divorziarono; in seconde nozze sposò Mark Lanskij, un collega alla cattedra di chirurgia ospedaliera, con cui ebbe il secondo figlio Ilja.
Nel 1984 Nina difese il dottorato in chirurgia intestinale
, e divenne famosa per le operazioni di rara difficoltà che nessuno aveva il coraggio di compiere, con una metodologia tutta sua. Era particolarmente amata per la cura assidua di ogni paziente, che non voleva delegare a nessuno. Nel 1990 morì il secondo marito, e nello stesso anno per sua iniziativa fu aperta una cappella nell’ospedale. Durante gli anni sovietici, nessuno la conosceva come una persona religiosa.La morte del marito la spinse ad avvicinarsi sempre più alla Chiesa, e a quasi 70 anni Nina decise di lasciare la medicina ed entrare in monastero, prendendo il nome di Anastasia. La sorella Tatjana ricorda che “sembrava che avesse deciso di andare in guerra, per salvare il mondo”. Un sacerdote che l’accompagnò nella conversione, padre Andrej (anch’egli medico) spiega che “in monastero si entra per morire degnamente, donando la vita a Dio; non importa più quanti anni ancora si vive, perché si è già insieme all’amato più totale, a Cristo”.
Madre Anastasia spiegava anche che “la medicina è una possibilità pratica di realizzare quanto è scritto nel Vangelo, di amare il prossimo, anche se è sporco, ferito o insanguinato”. Naturalmente i suoi pazienti e i tanti che la conoscevano e ammiravano cominciarono a venire a trovarla in monastero, creando un vero movimento di “guarigione dell’anima”. Alla fine la superiora del monastero le permise di continuare anche a esercitare la chirurgia, e attrezzarono una sala operatoria nel monastero di San Giovanni, sotto lo sguardo muto e vigile delle icone. Al sabato madre Anastasia si dedicava ai pazienti, anche solo per semplici consultazioni, senza appuntamento e senza compenso.
La memoria civile, in questo caso, si accompagna alla memoria religiosa, che riconosce la santità prima e meglio dello stesso umano eroismo: la storia di madre Anastasia non è finita, perché molto bene sarà ancora in grado di fare.
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