La donna, di origini nigeriane, aveva 29 anni e ha scoperto di avere un tumore nelle prime settimane di gravidanza. È morta il 18 agosto, dopo aver abbracciato la sua piccola Greta
«Nostra figlia deve venire al mondo». Non ha avuto dubbi Glory Obibo, 29 anni, quando i medici le dissero che la creatura che portava in grembo poteva salvarsi solo se lei, la mamma, avesse rinviato le cure più invasive per quel tumore al seno
. Cure che avrebbe potuto riprendere, eventualmente, dopo la nascita della piccola. Glory, appunto, non ha avuto nessun tentennamento nello scegliere la vita di sua figlia.Tre mesi fa la gioia per la nascita, domenica la morte della mamma. Il marito, Samuele Nascinben, è straziato. Confida agli amici che il male è stato ingiusto, ma ringrazia ancora una volta sua moglie «per avergli lasciato un diamante».
La storia sta commuovendo tutta Treviso, tutti gli amici della famiglia, ma anche il vasto mondo del volontariato, in particolare il Cav e l’Mpv, che hanno accompagnato Gloria e Samuele lungo questo doloroso itinerario, l’ospedale di Treviso e la comunità di “Casa dei gelsi”. Glory era giunta in Italia nel 2000, insieme a tante altre nigeriane, per riscattarsi dalla miseria.
A Treviso, racconta Avvenire, ha conosciuto Samuele, un bravissimo pizzaiolo: lei viveva per strada, lui una sera le regalò un pezzo di pizza e così si conobbero. Un anno fa, dopo il matrimonio, la ricerca di un figlio. Un primo tentativo. E poi un secondo. La gravidanza arriva e i sogni ricominciano, ma dopo poche settimane, ecco il dramma che non ti aspetti: un dolore al seno, i controlli e la decisione dei medici di operare. Ma proprio in sala operatoria il tumore si palesa in tutta la sua gravità. Si rendono necessarie terapie tra le più pesanti, ma la bimba? La bambina è sana e, quindi, deve nascere.
Per Glory non ci sono dubbi. Le cure possono aspettare; per il momento bastano quelle che frenano la malattia. «Glory ha protetto tutti, fino all’ultimo, tenendosi per sé le paure e le sofferenze. L’ha fatto per dare alla luce nostra figlia – ha confidato Samuel a “La Tribuna” -, ed ora io ho tra le mani un diamante che alleverò con tutta la forza e la tenacia che aveva lei. Io potevo solo sostenerla; la sua, credo, non sia mai stata davvero una scelta. Sapeva di volere nostra figlia, ed ha proseguito per quella strada come se fosse la cosa più giusta e normale. Anche immaginando quello che poteva succedere».
Samuele ricorda, tra le lacrime, quando sua moglie gli raccomandava di non avvertire della malattia la propria famiglia perché la madre sarebbe crollata. «Proteggere tutti, tranquillizzare tutti, questa era la volontà di Glory. Io l’ho sempre fatto». La prospettiva della morte? «Con lei era impossibile parlarne, aveva sempre lo sguardo al futuro, gli occhi alla bambina. E quando la piccola è nata siamo stati la coppia più felice del mondo».
Sì, anche quando la moglie è stata ricoverata prima in ospedale (dove ha ricevuto il massimo dell’accompagnamento) e negli ultimi giorni di vita all’hospice, la “Casa dei gelsi”. «In ospedale, come alla “Casa dei gelsi” – testimonia il marito – Glory si vantava di me con le infermiere: vedete che bravo che è? Diceva ridendo, vedete quanto fortunata sono?». Glory era sostenuta da una grande fede; era cristiana evangelica. «Certo è – afferma oggi il marito – che con lei il male poteva essere più delicato, più tenue». «Abbiamo accolto Glory all’hospice con un abbraccio – affermano i dirigenti della Casa – seguendo la nostra mission di accompagnare le persone a vivere la parte più delicata della loro malattia in un ambiente familiare, anche con la vicinanza dei propri cari, controllando il dolore e gli altri sintomi ed affrontando le problematiche psicologiche, sociali e spirituali attraverso un percorso personalizzato di cura, nel rispetto della loro personalità».
Lungo questo percorso Glory ha trovato al suo fianco le volontarie di “Uniti per la vita”. «La sua scelta è stata grande – riconosce Lidia De Candia – perché Glory era consapevole di avere un brutto male. Probabilmente sapeva anche che un’eventuale gravidanza non si sarebbe conciliata con le cure, ma la maternità l’ha voluta con tutte le sue forze. Era davvero una persona bella, educata, gentile, piena di entusiasmo. Non finiva mai di ringraziare noi volontarie, ma anche il personale medico e infermieristico prima dell’ospedale e poi dell’hospice. Non voleva che ci affaticassimo per assisterla».
Cav e Mpv di Treviso accompagnano 300 mamme in difficoltà; numerose sono proprio quelle nigeriane. «Glory era di una riconoscenza eccezionale – ammette Lidia –. Quando uscì dall’ospedale, volle farsi portare, seppur gravemente ammalata, al Cav per ringraziare. E proprio una delle nostre volontarie l’ha accompagnata anche negli ultimi istanti di vita, accanto al marito e a sua figlia».
Di Francesco del Mas per Avvenire.it
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