Nacque scalando. Visse in salita. Morì senza canto. Nome: Marco. Cognome: Pantani. Ennesimo eroe caduto per mano d’ignoti nell’italica e impietosa macchina del fango mediatico. Atleta stritolato da macchinari molto più alti e più complessi delle sue ardìte vette e della sua Bianchi bicicletta.
Magro, filiforme, appuntito. Aereodinamico, non fosse stato per quelle sue orecchie così uniche nel loro genere. Marco Pantani, da Cesenatico. Che qui vide la luce terrena nel giorno 13 di Gennaio del 1970. Gli Dèi si presero gioco di lui, facendolo nascere e “debuttare” al mare. Marco ci mise poco, però, a salire in bicicletta e a scollinare. Grazie al nonno. E a persone dotate di quella carica umana che aveva già fatto loro capire che “quel Marco lì” aveva qualcosa di speciale dentro di sé. La prima bici, rossa di passione. E con quella rossa bici fiammante Marco prese confidenza col ciclismo. Gare. Velocità. Vittorie. E, soprattutto, salite. Era su quelle che Marco faceva la differenza. Arrivava addirittura a lasciare agli altri concorrenti un discreto margine di vantaggio in pianura, per poi godersi i “sorpassi” una volta che arrivavano le salite da lui tanto amate. Sadico, l’atleta Marco. Del resto, a un Gianni Mura che gli chiedeva perché diavolo andasse tanto forte in salita, il Pantani uomo rispose a doppio senso: “perché così abbrevio la mia agonia”.
Marco Pantani: tutto ebbe inizio e tutto finì con lui. Ciclismo eroico. Italiani in delirio. Il Mondo a onorarlo. Vittorie. Imprese. Giri. Tour. Mortirolo. Mont Ventoux, Alpe d’Huez, Galibier. Il mito. Il Pirata. Chiuso in sé. Ermetico. Preciso al millimetro nella preparazione del suo prolungamento tecnico a due ruote. Lo sguardo melancolico. Gli occhi profondi. Umorale. Difficile. Geniale. Avrebbe potuto scegliere di esprimersi con quadri, musica o altro. Scelse la bicicletta per volere divino. Per lasciare un segno. Per sempre. Perché a ciò era destinato, sin dal quel 13 Gennaio in cui la signora Tonina, sua mamma, lo mise al mondo.
Marco Pantani (1)Un Marco che la mamma ama come solo una mamma può fare: come una calda coperta, come una tigre feroce. Il suo Marco, che ebbe incidenti da cui ritornò più forte di prima, che utilizzò la ruota dentata come metafora di vita, che a braccia aperte sul traguardo assaporava la vita dopo essere stato vicino alla morte per fatica, non poteva essersene andato così. Lei, Tonina, lo sa. L’ha sempre saputo. Certe cose una mamma le sente dentro. Perché è lei, e solo lei, che genera vita. A noi rimane solo tanta carta, tante parole, tante balle. Pantani che la “coca” non la sniffa…no, se la mangia!
E perché mai, benedetto Iddio? E per di più senz’acqua. Balle spaziali. Basterebbe il buon senso per capire da che parti si aggira la verità sulla sua morte. Ma la verità tricolore fatica troppo spesso a emergere. Così abbiamo oggi la memoria di un grande campione sporcata da menzogne orchestrate. Per questo motivo arriva questo scritto, nel giorno della nascita di Marco Pantani: per ripulire Marco da questo fango. Per far sì che in tanti si possano avvicinare alla bicicletta pensando a lui come eroe positivo, come campione, come fuoriclasse. Perché in molti possano salire in sella e godersi il piacere di pedalare avendo lo sguardo e la fatica del Pirata come compagni di viaggio. Perché in Italia si possa finalmente urlare a tutti che Pantani è diventato immortale il giorno in cui è stato ucciso.
Articolo di Paolo Bocchi
Fonte www.sportfair.it
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