Roma è come uno scrigno. Uno scrigno colmo di pietre preziose: Roma ne custodisce tantissime. Anime privilegiate che lo Spirito ha suscitato nel corso del tempo. La Serva di Dio Maria Aristea Ceccarelli è una di queste pietre preziose racchiuse in questo grande scrigno di questa Roma, culla di santità!
Potrebbe suscitare meraviglia e stupore, eppure se mi chiedessero dove ho avuto la possibilità di conoscere ed approfondire la straordinaria figura di questa Serva di Dio, dovrei rispondere francamente: a casa sua! Si, tra le mura della sua casa, in via Ancona, nei pressi di Porta Pia, a Roma. Proprio quelle mura, abitate in passato, per arcano disegno della Divina Provvidenza, da un carissimo amico sacerdote (che mi è ancora oggi padre); quelle mura, impregnate di santità, ma anche di lacrime silenziose, di offerta quotidiana al Signore; quelle mura dove era di casa il dolore e la gioia, l’umiliazione e l’accoglienza, la violenza e il perdono, la bestemmia e la preghiera, la brutalità e il sorriso materno mi hanno concesso la straordinaria grazia di incrociare sul mio cammino la splendida figura di questa donna, di questa moglie, di questa cristiana, e non esagero di questa santa. La sua casa per me, è stata casa di accoglienza, profumava di famiglia, perché in via Ancona si andava per incontrare persona care e amabili, per ascoltare parole buone, che sollecitano, che accompagnano, che spalancano i confini e gli orizzonti vasti del vivere cristiano.
Ella è una donna attuale, che, probabilmente, – lo credo, con forza – molto ha da dirci ed insegnarci.
Ma chi era Maria Aristea?
Maria Aristea nacque ad Ancona il 5 novembre 1883, dodicesima di sedici figli, di cui solo cinque sopravvissero all’infanzia. Il padre, Antonio e la madre, Nicolina Menghini, la battezzarono il 9 dicembre dello stesso anno. La madre era di modestissime condizioni, d’indole assai chiusa, dura, completamente analfabeta. Il padre, Antonio, prima di unirsi a lei aveva già contratto matrimonio con un’altra donna, dalla quale aveva avuto un figlio. Aveva un carattere estremamente irascibile, duro, scontroso e violento. Era dedito al gioco, al bere e gran bestemmiatore. Si trasferì ad Ancona, nel rione Archi dove gestiva una bettola d’infimo ordine che esigeva l’enorme fatica di tutta la famiglia e dava un reddito minimo. Aristea, fin da piccolissima, appena poteva si recava nella vicina chiesa del Crocifisso ove passava lunghi momenti parlando cuore a cuore con Gesù, il suo più grande amico e confidente. Lavorava instancabilmente, prestandosi a ogni servigio chiestole non solo in casa, ma anche dalle vicine. A sei anni ricevette la cresima. Benché desiderasse ardentemente poter andare a scuola, non vi fu mai mandata. Si mise d’accordo con una maestra che, per un soldo, le dava qualche lezione. Guadagnò questo denaro assumendo ulteriori lavori più pesanti e risparmiando su tutto, ma non bastava. Dovette smettere e non poté mai più imparare a leggere e scrivere. A circa undici anni fece la prima comunione, nella totale indifferenza dei genitori, che neppure l’accompagnarono in chiesa. La sua indicibile gioia fu solo la sua intimità con Gesù, che aumentò sempre più.
Nella vita di Maria Aristea dolore e amore camminano di pari passo. La Serva di Dio aveva ben compreso, infatti, che ciò che salva è la Croce: sta qui la follia del Vangelo! Logica un po’ strana! Basterebbe decisamente capire che la Croce, molto prima di essere dolore, è essenzialmente amore. In essa ciò che è umanamente impossibile diventa divinamente certo. Annota nel suo diario spirituale: «È un amore sempre più forte al dolore, perché amore e dolore non debbono essere disgiunti, ma sempre uniti, sempre uniti, perché quella è stata la vita di Gesù Cristo!». Si potrebbe dire che questa semplice donna ricalchi le orme delle grandi figure di santità da Teresina di Lisieux a Brigida di Svezia, da Giuliana di Norwick a Teresa d’Avila. Non possiamo capire la vita di Maria Aristea, noi che siamo abituati alla ribellione, noi che prima di parlare di doveri, ci preoccupiamo che i nostri diritti siano ben tutelati. In quest’ottica è impossibile capire il mistero di Aristea, è impossibile capirne la spiritualità e tanto meno il suo carisma che tocca le alte vette della mistica. Non possiamo capire Aristea se non cambiamo prospettiva; «gli uomini e le cose umane bisogna conoscerli per amarli, Dio e le cose divine bisogna invece amarle per conoscerle» disse Blaise Pascal, ed è una forma più semplice per esprimere l’assioma di sant’Anselmo “credo ut intelligam!” – credo per capire, mentre la logica umana direbbe voglio prima capire per poi credere. La testimonianza di Maria Aristea ridicolizza il nostro “voler capire”, perché nessun esercizio e nessuna abilità umana può portarci in contatto con Dio. Se Egli non pronuncia Se stesso in noi, non lo conosceremo più di quanto una gallina conosca il pollaio nel quale è rinchiusa per forza. La nostra scoperta di Dio è la scoperta che Dio fa di noi. Questo voleva dire Sant’Anselmo, questo voleva dire Pascal, questo voleva dire Aristea. Noi non siamo capaci a salire in Cielo, e allora è Lui che scende dal cielo e ci trova. Noi Lo conosciamo solo in quanto conosciuti da Lui. E quando Dio si fa conoscere nel cuore di un’anima, in quel momento noi abbandoniamo tutti i nostri progetti e tutti i nostri obiettivi e penetriamo nella infinita realtà, dove ci risvegliamo col nostro vero io – povero, nudo, confuso ma avvolto dall’amore. Pertanto, questa grande testimone ci insegna a prendere coscienza della nostra identità. Prendere coscienza di quanto sia alterata, da cattivi valori, la realtà nella quale viviamo; ciò ci permette di iniziare un percorso che ci porta a riconnetterci con la nostra identità di uomini, di donne, di credenti, di chiamati, di pellegrini. Oggi in una realtà artificiale nella quale vengono offerti caratteri indistinti, liquidi, sostituibili e ribaltabili, Maria Aristea ci insegna il primato della carità, poiché è nella verità della propria identità che risiede la libertà.
La libertà di spendersi, di consumarsi per amore di Cristo. La storia di questa donna è la prova che le umiliazioni, i dolori, le malattie e le sofferenze possono essere arricchite da una dimensione soprannaturale. Se il lettore dovesse fermarsi soltanto al dato storico evitando di coniugare l’esperienza spirituale con quella umana, ne risulterebbe di Aristea o un essere “buttato” nella vita e abbandonato a se stesso, o un prigioniero del mondo; un burattino in mano al potente di turno, che di volta in volta decide per lui. La fede è sempre scandalosa. L’esperienza umana di Aristea va accolta, letta e compresa solo in un’ottica di fede: l’uomo che non ha la fede conosce solo nei limiti, a differenza dell’ uomo che ha fede il quale vede più lontano. Solo in un ottica di fede, di adesione convita al Cristo Crocefisso si comprende il dolore e la vita di Aristea la quale arriva a scrivere: «Che cosa vi è più grande di un Dio?Più vile di una mangiatoia? L’amore illuminato di Dio per noi misere e spregevoli creature. L’umiltà di un Dio! … che cosa non devono provare le povere anime nostre? Amate lagrime! Quanto desidero di soffrire, di patire, tanto con la grazia di Dio e per solo e unico e puro amore Suo. Dio, Dio solo e con Lui ameremo senza misura il nostro Prossimo. Un sì incessante, Iddio ci darà la forza, la possibilità, i mezzi». Bisogna essere innamorati, bisogna aver fatto esperienza dell’amore Crocefisso, della sua infinita misericordia per comprendere questa gigante di santità ordinaria.
Per coloro che fossero interessati a questa particolare figura di santità della nostra Roma, mi permetto di segnalare: http://www.camilliani.org/non-vi-abbandonero/ (una piccola ed agevole biografia online), unitamente ad un’altra prossima pubblicazione dal titolo “Patiendo et orando” che uscirà per le edizioni Tau, tra non molto tempo.
Andrea Maniglia
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