Pubblichiamo un’anticipazione dell’ampia intervista (lunga 22 pagine) realizzata da padre Antonio Spadaro, direttore della rivista «La Civiltà Cattolica» al regista Martin Scorsese nella sua casa di New York. Negli Stati Uniti sta per uscire «Silence», il film che il cineasta ha tratto dal libro omonimo di Shusako Endo che narra il martirio dei missionari gesuiti nel Giappone buddista del 1600.
Suono il campanello di casa Scorsese a New York. È una giornata fredda, ma luminosa. Vengo accolto in cucina, come in famiglia. La persona che mi fa entrare mi chiede se voglio un buon caffè. «Italiano», precisa. Accetto. Infreddolito. Arriva Martin con passo svelto e col sorriso accogliente. La nostra conversazione, prima di passare al film, si sofferma sulle nostre radici comuni. Siamo in qualche modo «paesani». Lui sa già che io sono di Messina. Lui mi dice che è di Polizzi Generosa. O meglio: lo era suo padre. Ma per lui è chiaro che le sue radici sono là. La Polizzi Generosa di Giuseppe Antonio Borgese e del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Ma non ricordiamo questi illustri compaesani. Ricordiamo invece la sua vita da figlio di immigrato nei quartieri di New York, la sua vita da chierichetto. Ne esce un miscuglio di legami di sangue, violenza e sacro. I ricordi da chierichetto in chiesa si fondono con quelli di ragazzino che, inconsapevolmente, fa della strada il suo primo set cinematografico: quello della sua immaginazione e dei suoi sogni.
Come le è venuto in mente il progetto di «Silence»? So che è una sua passione, che l’aveva in mente da tempo, forse da 20 o 30 anni…
«Il romanzo di Shusako Endo mi è stato regalato nel 1988. Ho finito di leggerlo nell’agosto 1989 sul treno veloce da Tokyo a Kyoto, dopo avere ultimato di girare la parte di Van Gogh in Sogni di Akira Kurosawa. Non saprei dire se a quel punto fossi o non fossi effettivamente interessato a farne un film. La storia era così inquietante, mi toccava corde così profonde, che non sapevo nemmeno se avrei mai potuto fare un tentativo di affrontarla. Ma, col passare del tempo, in me qualcosa ha cominciato a dire: “Devi provarci”. Abbiamo acquisito i diritti verso il 1990-91. Se guardo indietro, penso che questo lungo processo di gestazione sia diventato un modo di vivere con la storia e di vivere la vita — la mia vita — attorno a essa. Attorno alle idee che erano nel libro. E da quelle idee sono stato provocato a pensare di più sulla questione della fede. Guardo indietro e vedo che tutto nella mia memoria si riunisce come in una sorta di pellegrinaggio: è così che è andata. Sono stupito di aver ricevuto la grazia di essere in grado di fare il film ora, a questo punto della mia vita».
Questo suo film, la scelta di un romanzo come «Silenzio», sembra porsi nell’alveo dell’immaginario cattolico. È un film «alla Bernanos»?
«Per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti. Sono entrato in sintonia con il romanzo di Endo, che era giapponese, in un modo che non mi è mai successo con Bernanos. In Bernanos c’è qualcosa di così duro, di inesorabilmente aspro. Invece, in Endo la tenerezza e la compassione sono sempre presenti. Sempre. Anche quando i personaggi non sanno che la tenerezza e la compassione ci sono, noi lo sappiamo».
Chi è Dio per lei?
«Come molti bambini, ero oppresso e profondamente impressionato dal lato severo di Dio che ci era stato presentato: il Dio che ti punisce quando fai qualcosa di male, il Dio tuoni e fulmini. È quello che Joyce tratteggiava in Ritratto dell’artista da giovane, un’opera che ebbe un profondo effetto su di me. Certo, nel Paese era un momento drammatico. Stava montando la vicenda del Vietnam, e quella era appena stata dichiarata una “guerra santa”. E quindi in me, come in tanti altri, c’era molta confusione. Dubbio e tristezza erano parte della realtà della vita quotidiana. Fu a quei tempi che vidi il film di Bresson, Diario di un curato di campagna, e mi diede speranza. Ogni personaggio di quel film, forse a eccezione del vecchio prete, prova sofferenza. Ogni personaggio si sente punito, e la maggior parte di loro si infliggono punizioni l’un l’altro. A un certo punto, il prete ha un dialogo con una delle sue parrocchiane e le dice: “Dio non è un carnefice. Vuole che abbiamo pietà di noi stessi”. Questo per me ha costituito una sorta di rivelazione. Ho incontrato una volta Bresson a Parigi e ho avuto modo di dirgli cosa aveva significato per me il suo film».
Padre Rodrigues e padre Ferreira sono due facce della stessa moneta, oppure sono due monete diverse, incomparabili?
«Non sappiamo in cosa il padre Ferreira storico abbia o non abbia creduto, ma nel romanzo di Endo sembrerebbe che avesse perso la fede. Forse un altro modo di vedere le cose è che non riusciva a superare la vergogna di aver rinunciato alla propria fede, anche se lo ha fatto per salvare vite umane. Rodrigues, d’altra parte, è uno che rinnega la sua fede e, più tardi, la riacquista. Questo è il paradosso. Per dirla semplicemente, Rodrigues sente Gesù che gli parla, Ferreira invece no, ed è questa la differenza».
«Silence» sembra la storia di un’intima scoperta del volto di Cristo… Qual è il volto di Cristo per lei?
«Ho scelto il volto di Cristo dipinto da El Greco, perché ho pensato che fosse più compassionevole di quello dipinto da Piero della Francesca. Nella mia gioventù, man mano che crescevo, per me il volto di Cristo era sempre un conforto e una gioia».
Lasciando da parte «L’ultima tentazione di Cristo», secondo lei quale film nella storia del cinema ritrae meglio il vero volto di Cristo?
«Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto».
C’è stata una situazione in cui invece ha sentito Dio vicino, anche se taceva?
«Quando ero giovane, e servivo Messa, non c’era alcun dubbio che avvertissi un senso del sacro. Ho cercato di trasmetterlo in Silence, durante la scena della Messa nella casa colonica a Goto. In ogni caso, mi ricordo che uscivo dopo la fine della Messa e mi chiedevo: com’è possibile che la vita vada avanti come se niente fosse accaduto? Perché il mondo non viene scosso dal corpo e dal sangue di Cristo? È questo il modo in cui ho sperimentato la presenza di Dio quando ero molto giovane».
Nella storia di «Silence» c’è moltissima violenza fisica e psicologica. Cosa rappresenta?
«Io sono ossessionato dallo spirituale. Sono ossessionato dalla domanda su ciò che siamo. E questo significa guardarci da vicino, guardare il bene e il male di noi. Possiamo nutrire il bene in modo che, a un certo punto futuro nell’evoluzione del genere umano, la violenza, forse, cesserà di esistere? Comunque sia, per il momento, la violenza è qui. È qualcosa che facciamo. Mostrarlo è importante. Così non si fa l’errore di pensare che la violenza sia qualcosa che fanno altri, che fanno “le persone violente”. “Ovviamente io non potrei mai farlo”. E no: invece, in realtà, potresti. Non possiamo negarlo. Quindi, ci sono persone che restano sconvolte dalla loro stessa violenza, o che se ne entusiasmano. Nei primi anni ‘70 stavamo venendo fuori dall’era del Vietnam ed era la fine dei fasti della vecchia Hollywood. Bonnie e Clyde e poi, ancora di più, Il mucchio selvaggio, sono stati una rivelazione. Quei film ci hanno parlato, non necessariamente in un modo piacevole».
Per lei fare un film è come dipingere un quadro. La fotografia, le immagini… come fanno a farci vedere lo spirito?
«Si crea un’atmosfera attraverso l’immagine. Ci si colloca in un ambiente dove si può sentire l’alterità. E sono queste le immagini, le idee e le emozioni che si traggono dal cinema. Ci sono certe cose intangibili che le parole, semplicemente, non possono esprimere. Quando, nel cinema, si monta un’immagine insieme a un’altra, nella mente si ottiene una terza immagine diversa: una sensazione, un’idea. Io penso che l’ambiente che si crea è una cosa, e che questo riguardi la fotografia. Ma è nel congiungersi delle immagini che il film ci cattura e ci parla. È l’editing, ed è l’azione del fare cinema».
Redazione Papaboys (Fonte www.corriere.it/P. Antonio Spadaro)
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