Martini, la rinuncia di Benedetto e il conclave 2005

Le confidenze di padre Silvano Fausti, recentemente scomparso, attribuiscono al porporato gesuita un ruolo decisivo nell’elezione di Ratzinger e anche nella decisione della rinuncia. Altre fonti però tendono a ridimensionarlo.

Le confidenze del biblista padre Silvano Fausti, gesuita, scomparso lo scorso 24 giugno, confessore e guida spirituale del cardinale Carlo Maria Martini hanno riacceso i riflettori sul ruolo giocato dall’ex arcivescovo di Milano nel conclave del 2005 che elesse Benedetto XVI. In una video-intervista (glistatigenerali.com), Fausti racconta due episodi. Uno riguardante la rinuncia di Papa Ratzinger e quell’ultimo colloquio con Martini, avvenuto a Milano il 2 giugno 2012, in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie. Il porporato gesuita, gravemente ammalato di Parkinson (morirà tre mesi dopo), incontrò Ratzinger nel primo pomeriggio, in arcivescovado.

In quella occasione, secondo il racconto di Fausti, Martini disse a Benedetto XVI che era venuto il momento di dimettersi perché la Curia romana appariva irreformabile: «è proprio ora, qui non si riesce a fare nulla». Padre Fausti è una fonte di prima mano dato il rapporto che lo legava a Martini. È inoltre ben noto che Ratzinger e Martini si stimassero, pur da posizioni diverse. Non c’è da dubitare che con franchezza, in un frangente doloroso per la Santa Sede, nel pieno dello scandalo Vatileaks, l’arcivescovo emerito di Milano abbia suggerito a Benedetto la rinuncia.

È altrettanto noto che Papa Ratzinger aveva presente la possibilità di dimettersi già da tempo, probabilmente fin dall’inizio del suo pontificato. Aveva vissuto da vicino gli ultimi anni di Giovanni Paolo II, e aveva visto come la malattia del Pontefice avesse fatto crescere il potere dell’entourage. Del resto, ad attestare la riflessione di Benedetto XVI sulla possibilità della rinuncia è il libro-intervista con Peter Seewald («Luce del mondo»), pubblicato nel novembre 2010. Inoltre, per ammissione dei più suoi stretti collaboratori, si sa che la decisione venne presa da Ratzinger all’indomani del viaggio in Messico e a Cuba, del marzo 2012. Il Pontefice era tornato stremato da quella trasferta intercontinentale e aveva preso coscienza che non ce l’avrebbe fatta a compiere il già programmato viaggio in Brasile per la Giornata mondiale della Gioventù nel luglio 2013. Su questa situazione si è innestato lo scandalo di Vatileaks, che paradossalmente non ha accelerato la rinuncia, ma l’ha ritardata.

Il Segretario di Stato di Benedetto XVI, Tarcisio Bertone, ha dichiarato di aver ricevuto la comunicazione della decisione della rinuncia «a metà 2012», dunque presumibilmente nel mese di giugno. Lo stesso ha raccontato il vescovo Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare di Ratzinger. Don Georg smentisce categoricamente che la ragione delle dimissioni sia legata a Vatileaks, facendo notare che l’annuncio è arrivato dopo la conclusione della vicenda, cioè dopo la fine del processo al maggiordomo Paolo Gabriele e l’udienza con Benedetto che lo perdonava. Sia Bertone che Gänswein avevano tentato – invano – di convincere Ratzinger a restare in carica. In questo contesto si collocano le parole di Martini. Non è possibile sapere se Benedetto XVI nell’ultimo breve incontro in arcivescovado del 2 giugno, abbia parlato a Martini delle sue intenzioni. È più probabile che sia stato il cardinale gesuita a parlargliene, come padre Fausti riferisce.

Molto più complesse da decifrare sono invece le confidenze di padre Fausti in merito al conclave del 2005, quando, secondo la sua ricostruzione, Martini avrebbe spostato i suoi consensi su Ratzinger per evitare «giochi sporchi» che puntavano a eliminare tutti e due per eleggere «uno di Curia, molto strisciante, che non ci è riuscito». Secondo Fausti, Ratzinger e Martini «avevano più voti, un po’ di più Martini». Ci sarebbe stata una manovra per eleggere un porporato curiale. «Scoperto il trucco, Martini è andato la sera da Ratzinger e gli ha detto: accetta domani di diventare Papa con i miei voti… Gli aveva detto: accetta tu, che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto: se riesci a riformare la Curia bene, se no te ne vai».

Vista l’autorevolezza della fonte e il suo ruolo di confessore e direttore spirituale di Martini, non c’è motivo di dubitare sul fatto che l’arcivescovo emerito di Milano, in quel suo primo e unico conclave, abbia alla fine votato e fatto votare i suoi sostenitori per Ratzinger. Discutibile e discussa rimane invece la parte che assegna a Martini un pacchetto di voti importante e almeno inizialmente persino superiore a quelli di Ratzinger. Non c’è dubbio che in quella elezione papale l’unico gruppo organizzato, che aveva per tempo iniziato un’opera di convincimento presso gli altri cardinali, era quello dei sostenitori di Ratzinger. Lavoravano in questo senso il cardinale Bertone, all’epoca arcivescovo di Genova, per anni numero due del porporato bavarese alla Congregazione per la dottrina della fede; il cardinale curiale colombiano Alfonso Lopez Trujillo; diversi allievi di Ratzinger, tra i quali ad esempio l’arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn.

Secondo le più accreditate ricostruzioni di quel conclave, il cardinale Joseph Ratzinger, personalità riconosciuta e rispettata anche da chi era su posizioni diverse che aveva condotto con grande equilibrio e sapienza da decano del collegio la fase del pre-conclave, era partito fin dalla prima votazione della sera con un consistente pacchetto di voti (tra i trenta e i quaranta, secondo alcuni; oltre i quaranta, secondo altri). Il gruppo dei sostenitori di Martini ne aveva totalizzati molti meno (una decina). L’arcivescovo emerito di Milano, già malato di Parkinson (lo stesso morbo che aveva colpito Giovanni Paolo II, il Papa appena scomparso) aveva accettato di fare il candidato ma soltanto «di bandiera», per permettere ai suoi sostenitori di contarsi, mettendo bene in chiaro che a causa delle sue condizioni di salute non avrebbe accettato l’elezione.

Il secondo votato in quel conclave non fu dunque Martini, ma Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, che secondo la ricostruzione offerta da Lucio Brunelli su «Limes» grazie alla pubblicazione del diario di un porporato, raggiunse nella terza votazione del conclave (la seconda della mattinata del giorno dell’elezione) ben quaranta voti. Una pacchetto consistente, che mise in agitazione i sostenitori di Ratzinger. Decisivo fu il momento del pranzo. Ritornati nella Sistina, i porporati alla quarta votazione elessero Benedetto XVI. Non è difficile immaginare che di fronte a soluzioni di ripiego, Martini abbia preferito sostenere una personalità come Ratzinger.

Esistono però anche altre testimonianze, secondo le quali al momento del pranzo di quel 19 aprile, alcuni porporati, tra i quali Martini, avrebbero avuto la percezione che la giornata si poteva chiudere senza l’elezione. E questo avrebbe eliminato dalla corsa sia Ratzinger – il quale aveva accettato la candidatura a patto che l’elezione fosse rapida e non spaccasse il collegio cardinalizio – sia il secondo più votato, cioè Bergoglio. Il che avrebbe fatto spuntare un terzo candidato, fino a quel momento rimasto nell’ombra.

Di Andrea Tornielli per Vatican Insider (La Stampa)

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