E la legge che dice? Anch’essa nulla, perché nel Paese non ci sono testi normativi riguardo al contratto di gestazione per altri. Anzi, a voler ben vedere una norma – generale, dunque inutile a regolamentare l’accaduto – c’è: quella che tutela gli affari commerciali.
In tale categoria rientra l’utero in affitto, transazione in piena regola nella quale una parte (gli aspiranti “genitori”) si obbliga a pagare un prezzo, mentre l’altra (la gestante) a farsi impiantare l’embrione fecondato in vitro e a portare avanti la gravidanza. Bisogna, però, considerare che, a volta, la controparte dei genitori non è una persona fisica bensì una clinica: vero e proprio “bambinificio” le cui prestazioni contrattuali vanno dall’“assemblaggio” del materiale genetico alla produzione dell’embrione, dal suo impianto nel ventre di un’altra donna al disbrigo di tutte le pratiche burocratiche. Fino alla consegna del prodotto finale (il bimbo) ai richiedenti-paganti.
Questa vicenda si sta consumando nel sud della Boemia, dove una coppia quarantenne voleva avere un figlio, ma non poteva: la donna è priva di utero. I due decidono, allora, di ricorrere alla fecondazione in vitro, i cui costi vengono sostenuti dal Servizio sanitario nazionale e, poi, alla maternità surrogata. Ottenuto l’embrione, questo viene impiantato in una 35enne scelta dagli stessi “aspiranti”. Ma il Centro di procreazione assistita non è d’accordo sull’identificazione della “mamma in affitto”: la persona individuata soffrirebbe sia di epilessia, sia di marcati disturbi mentali. E in più è single.
È allora che i “committenti” si procurano un certificato neurologico secondo cui la prescelta non avrebbe avuto di attacchi epilettici da lungo tempo, e sarebbe in grado di generare. In base a tale documento, il Centro riproduttivo asseconda la volontà dei pazienti. Ben presto, tuttavia, iniziano altre stranezze.
Nei primi mesi di gravidanza, la gestante rifiuta di sottoporsi agli esami di routine tesi a verificare lo stato di salute del feto. Nello stesso tempo, mostra incontrovertibili segni epilettici: i medici aumentano allora la somministrazione di farmaci. Il primo esame arriva alla 23esima settimana di gravidanza, e il suo responso evidenzia gravi problemi del feto alle gambe e alla colonna vertebrale. Che fare? Il Centro di procreazione consiglia l’aborto, forte del fatto che, in caso di gravi anomalie ereditarie, la legge dello Stato consente di interrompere la gravidanza fino alla 24esima settimana. Ma la gestante rimane inerte fino allo scadere del termine. La giovane riferisce di non aver abortito non per scelta, ma solo per il fatto di non essere riuscita a trovare informazioni adeguate sulle condizioni di salute del bimbo: la sua cartella clinica era “troppo piena”. Nella sostanza, sostiene, dunque, che le sia sfuggito. Poco importa la cosa ai genitori, che decidono seduta stante di risolvere il problema (solo quello di loro due, s’intende) rinunciando al bambino.
Nel frattempo, la gestante partorisce. E il neonato viene immediatamente sottoposto a diversi interventi chirurgici. A quel punto, sia i due “genitori-committenti” sia la gestante concordano su una cosa: affidare quella nuova vita, che nessuno più vuole, a un orfanotrofio.
La vicenda diventa allora di dominio pubblico, viene ripresa sia da riviste di settore che dalla stampa quotidiana. E accende un dibattito nel Paese sull’opportunità (ed eticità) o meno della maternità surrogata.
L’associazione nazionale degli ostetrici e ginecologi, per bocca del suo presidente, ribadisce quanto detto alla coppia committente da parte della Centro di procreazione assistita: «Una madre surrogata deve godere di ottima salute». Ma subito dopo lancia un monito: «Le persone che vogliono servirsi» della pratica di utero in affitto «sappiano prima che né la gravidanza, né la nascita del bimbo sono sempre tranquille e senza complicazioni. Dunque, prima di intraprendere tale decisione, riflettano con grande anticipo su ogni eventualità».
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Marcello Palmieri)
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