Categorie: Familia et Mens

Matrimonio e conversione pastorale. Intervista al Cardinale Christoph Schönborn

Coloro che hanno la grazia e la gioia di poter vivere il matrimonio sacramentale nella fede, nell’umiltà e nel perdono reciproco, nella fiducia in Dio che agisce quotidianamente nella nostra vita, sanno guardare e discernere in una coppia, in un’unione di fatto, in dei conviventi, gli elementi di vero eroismo, di vera carità, di vero dono reciproco. Anche se dobbiamo dire: «Non è ancora una piena realtà del sacramento». Ma chi siamo noi per giudicare e dire che non esistono in loro elementi di verità e di santificazione? La Chiesa è un popolo che Dio attira a sé e nel quale tutti sono chiamati. Il ruolo della Chiesa è di accompagnare ciascuno in una crescita, in un cammino. Come pastore sperimento questa gioia di essere in cammino, tra i credenti, ma anche tra molti non credenti.

Ci accorgiamo che, da un lato, è necessario ed è giusto avere dei criteri oggettivi, ne abbiamo bisogno, ma, d’altro lato, tali criteri non esauriscono tutta la realtà…

Faccio un esempio molto semplice che riguarda un uomo e una donna. Il loro primo matrimonio è stato civile, perché lui era già divorziato, ed essi si sono dunque sposati civilmente. Questo matrimonio è stato un fallimento e si sono separati. La donna ha un secondo matrimonio. In questo caso, il marito non era stato sposato religiosamente e lei era stata sposata solo civilmente. Hanno dunque potuto celebrare il matrimonio sacramentale. Oggettivamente è giustificabile, è corretto. Ma che cosa sarebbe successo se il primo marito della donna non fosse stato divorziato? Se fosse stato religioso il primo matrimonio, che è andato incontro al fallimento per diverse ragioni e ha portato infine a una seconda unione, questa sarebbe irregolare. Questo deve renderci docili all’ordine oggettivo, ma anche attenti alla complessità della vita. Ci sono casi in cui solo in una seconda, o anche in una terza unione, le persone scoprono davvero la fede. Conosco una persona che ha vissuto molto giovane un primo matrimonio religioso, apparentemente senza fede. Questo fu un fallimento, a cui sono seguiti un secondo e poi persino un terzo matrimonio civile. Solo allora, per la prima volta, questa persona ha scoperto la fede ed è diventata credente. Dunque, non si tratta di mettere da parte i criteri oggettivi, ma nell’accompagnamento devo stare accanto alla persona nel suo cammino.

Allora, che cosa fare in queste circostanze?

I criteri oggettivi ci dicono chiaramente che una certa persona ancora legata da un matrimonio sacramentale non potrà partecipare in modo pieno alla vita sacramentale della Chiesa. Soggettivamente essa vive questa situazione come una conversione, come una vera scoperta nella propria vita, al punto che si potrebbe dire, in qualche modo — in modo diverso, ma analogo al privilegio paolino —, che per il bene della fede si può fare un passo che va al di là di ciò che oggettivamente direbbe la regola. Penso che ci troviamo di fronte a un elemento che avrà molta importanza durante il prossimo Sinodo. Non nascondo, a questo proposito, di essere rimasto scioccato da come un modo di argomentare puramente formalista maneggi la scure dell’intrinsece malum

(2).

Sta toccando un punto molto importante. Potrebbe approfondirlo? Qual è il problema legato a ciò che si definisce «intrinsece malum»?

In pratica si esclude ogni riferimento all’argomento di convenienza che, per San Tommaso, è sempre un modo di esprimere prudenza. Non è né utilitarismo, né un facile pragmatismo, ma un modo di esprimere un senso di giustezza, di convenienza, di armonia. Sulla questione del divorzio, questa figura argomentativa è stata sistematicamente esclusa dai nostri moralisti intransigenti. Se mal compreso, l’intrinsece malum sopprime la discussione sulle circostanze e sulle situazioni per definizione complesse della vita. Un atto umano non è mai semplice, e il rischio è di «incollare» in maniera posticcia la vera articolazione tra oggetto, circostanze e finalità, che invece andrebbero letti alla luce della libertà e dell’attrazione al bene. Si riduce l’atto libero all’atto fisico in modo tale che la limpidezza della logica sopprime ogni discussione morale e ogni circostanza.  Il paradosso è che focalizzandosi sull’intrinsece malum si perde tutta la ricchezza, anzi direi quasi la bellezza di un’articolazione morale, che ne risulta inevitabilmente annichilita. Non solo si rende univoca l’analisi morale delle situazioni, ma si resta anche tagliati fuori da uno sguardo globale sulle conseguenze drammatiche dei divorzi: gli effetti economici, pedagogici, psicologici ecc. Questo è vero per tutto ciò che tocca i temi del matrimonio e della famiglia. L’ossessione dell’intrinsece malum ha talmente impoverito il dibattito che ci siamo privati di un largo ventaglio di argomentazioni in favore dell’unicità, dell’indissolubilità, dell’apertura alla vita, del fondamento umano della dottrina della Chiesa. Abbiamo perso il gusto di un discorso su queste realtà umane. Uno degli elementi cardine del Sinodo è la realtà della famiglia cristiana, non da un punto di vista esclusivo, ma inclusivo. La famiglia cristiana è una grazia, un dono di Dio. È una missione, e per sua natura — se vissuta in modo cristiano — è qualcosa da accogliere. Ricordo una proposta di pellegrinaggio per famiglie in cui gli organizzatori volevano invitare esclusivamente quelle che praticano il controllo naturale delle nascite. Durante un incontro della Conferenza episcopale abbiamo chiesto loro come facessero: «Selezionate solo quelli che praticano al 100%, al n %? Come fate?». Da queste espressioni un po’ caricaturali ci si rende conto che, se si vive la famiglia cristiana da quest’ottica, si diventa inevitabilmente settari. Un mondo a parte. Se si cercano sicurezze, non si è cristiani, ci si centra solo su se stessi!

Alcuni vogliono avere criteri oggettivi per poter permettere regolarmente alle persone che vivono un’unione irregolare di partecipare alla vita sacramentale della Chiesa. Alcuni padri sinodali invece hanno fatto riferimento alla necessità di un discernimento pastorale. Si è parlato anche di una prassi penitenziale in relazione alle coppie di divorziati risposati che chiedono l’accesso ai sacramenti

Se c’è stato un matrimonio sacramentale valido, una seconda unione resta un’unione irregolare. Invece, esiste tutta la dimensione dell’accompagnamento spirituale e pastorale delle persone che camminano in una situazione di irregolarità, ove sarà necessario discernere fra il tutto e il niente. Non si può trasformare una situazione irregolare in una regolare, ma esistono anche cammini di guarigione, di approfondimento, cammini in cui la legge è vissuta passo dopo passo. Ci sono anche situazioni in cui il prete, l’accompagnatore, che conosce le persone nel foro interno, può arrivare a dire: «La vostra situazione è tale per cui, in coscienza, nella vostra e nella mia coscienza di pastore, vedo il vostro posto nella vita sacramentale della Chiesa».

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