Come evitare decisioni arbitrarie?
Il problema già esiste, perché diversi pastori compiono queste scelte alla leggera. Ma il laissez-faire non è mai stato un criterio per rifiutare un buon accompagnamento pastorale. Sarà sempre dovere del pastore trovare un cammino che corrisponda alla verità e alla vita delle persone che egli accompagna, senza poter forse spiegare a tutti perché essi assumano una decisione piuttosto che un’altra. La Chiesa è sacramento di salvezza. Ci sono molti percorsi e molte dimensioni da esplorare a favore della salus animarum.
Si tratta dunque di accoglienza e accompagnamento…
Papa Francesco ha detto a noi vescovi austriaci quello che ha detto anche a molti altri: «Accompagnate, accompagnate». Ho proposto alla nostra diocesi un cammino di accompagnamento delle persone che sono in situazioni matrimoniali irregolari, per uscire da questa problematica diffusa dai mass media e che è diventata una specie di test per il pontificato di Papa Francesco: «Sarà alla fine misericordioso verso coloro che vivono in situazioni irregolari?». Si aspettano soluzioni generali, mentre l’atteggiamento del Buon Pastore è innanzitutto quello di accompagnare le persone che vivono un divorzio e un nuovo matrimonio nelle loro situazioni personali. Il primo punto su cui voglio soffermarmi sono le ferite e le sofferenze. Innanzitutto bisogna osservare prima di giudicare. Ma soprattutto, quando si parla di misericordia, ricordo sempre che la prima misericordia da chiedere non è quella della Chiesa, è la misericordia verso i nostri stessi figli. Io formulo sempre queste prime domande: «Avete avuto un fallimento matrimoniale? Avete fatto pesare il carico di questo fallimento, il peso del vostro conflitto sulle spalle dei vostri figli? I vostri figli sono stati presi in ostaggio dal vostro conflitto? Perché, se voi dite che la Chiesa è senza misericordia verso le nuove unioni, bisogna prima chiedere che cosa sia della vostra misericordia verso i vostri figli. Molto spesso sono i figli a portare il peso del vostro conflitto e del vostro fallimento per tutta la loro vita».
E poi c’è la situazione del coniuge abbandonato, oltre a quella dei figli.
Si parla molto poco di queste persone così numerose, che restano sole dopo un divorzio, restano in disparte e soffrono per la solitudine dell’abbandono del loro congiunto. Nella Chiesa c’è un’attenzione speciale per queste persone? Si cerca di seguirle, di accompagnarle? Ma ci sono altre domande: i divorziati risposati hanno fatto uno sforzo sufficiente di riconciliazione con il coniuge che hanno lasciato per una nuova unione? O sono entrati nella nuova unione con tutto il peso dei loro rancori, forse anche del loro odio per il coniuge che li ha abbandonati? E infine, la questione più delicata cui nessuno può rispondere al loro posto: come si pone la vostra coscienza davanti a Dio? Avete promesso fedeltà reciproca per tutta la vita, avete vissuto un fallimento… Che cosa dice questo alla vostra coscienza? Non lo dico per spingervi verso un sentimento di colpa, ma la questione rimane. Ho promesso qualche cosa che non ho potuto mantenere. La fedeltà è un grande valore. Non ho potuto mantenere ciò che ho promesso, o noi non abbiamo potuto mantenerlo reciprocamente.
Queste domande però aprono un cammino di penitenza e di riconciliazione, altrimenti non avrebbero senso…
Tutto questo può e dovrebbe preparare a un cammino di umiltà e non a vedere la questione dell’accesso alla vita sacramentale della Chiesa unicamente sotto la prospettiva di un’esigenza, ma piuttosto come un invito a un cammino di conversione che può aprire nuove dimensioni di incontro con il Signore ricco di misericordia. Bisogna sempre vedere anche quello che c’è di positivo, persino nelle situazioni più difficili, nelle situazioni di miseria. Spesso, nelle famiglie patchwork si trovano esempi di generosità sorprendente. So di scandalizzare qualcuno dicendo questo… Ma si può sempre imparare qualche cosa dalle persone che oggettivamente vivono in situazioni irregolari. Papa Francesco vuole educarci a questo.
Può parlarmi di qualche sua esperienza pastorale? Ci sono situazioni particolari che le vengono in mente e che le sembrano significative?
Ho un ricordo indimenticabile dell’epoca in cui ero studente al Saulchoir, presso i domenicani a Parigi. Non ero ancora prete. Sotto il ponte della Senna che portava al convento di Évry viveva una coppia di clochard. Lei era stata una prostituta, lui non so che cosa avesse fatto nella vita. Certamente non erano sposati, né frequentavano la Chiesa, ma ogni volta che passavo di là, mi dicevo: «Mio Dio, si aiutano a vicenda a camminare in una vita tanto dura». E quando ho visto gesti di tenerezza tra loro, mi sono detto: «Mio Dio, è bello che questi due poveri si aiutino tra loro, che cosa grande!». Dio è presente in questa povertà, in questa tenerezza. Occorre uscire da questa prospettiva tanto limitata dell’accesso ai sacramenti per le situazioni irregolari. La domanda è: «Dov’è Dio nella loro vita? E in che modo io come pastore posso discernere la presenza di Dio nella loro vita? Ed essi come possono aiutarmi a discernere maggiormente l’opera di Dio in una vita?». Dobbiamo saper leggere la Parola di Dio in actu tra le righe della vita e non soltanto tra le righe degli incunaboli!
Per la misericordia di Dio esistono situazioni irrecuperabili al punto tale che la Chiesa possa solo escludere definitivamente l’accesso al sacramento della Riconciliazione e all’Eucaristia?
Certamente possono esistere situazioni di autoesclusione. Quando Gesù dice: «Ma voi non avete voluto». Davanti a questo, in un certo modo, Dio è disarmato, perché ci ha dato la libertà… E la Chiesa deve riconoscere e accettare la libertà di dire no. È difficile voler conciliare a tutti i costi situazioni di vita complesse con una piena partecipazione alla vita della Chiesa. Questo non impedirà mai né di sperare, né di pregare, e sarà sempre un invito ad affidare una tale situazione alla provvidenza di Dio, che può offrire continuamente strumenti di salvezza. La porta non è mai chiusa.
Tra le varie cose viene chiesto di rendere matrimonio un’unione tra persone dello stesso sesso. Come trovare le parole per un accompagnamento nel cammino di fede, realista ed evangelico, delle persone con orientamento omosessuale?
Si può e si deve rispettare la decisione di creare un’unione con una persona dello stesso sesso, di cercare gli strumenti nella legge civile per proteggere la propria convivenza e la propria situazione con leggi che assicurino questa protezione. Ma se ci viene chiesto, se si esige che la Chiesa dica che questo è un matrimonio, ebbene dobbiamo dire: non possumus . Non è una discriminazione delle persone: distinguere non vuol dire discriminare. Questo non impedisce assolutamente di avere un grande rispetto, un’amicizia, o una collaborazione con coppie che vivono questo genere di unione, e soprattutto di non disprezzarle. Nessuno è obbligato ad accettare questa dottrina, ma non si può pretendere che la Chiesa non la insegni.
Lei ha incontrato situazioni di persone omosessuali che l’hanno interrogata?
Sì, ad esempio, conosco una persona omosessuale che ha vissuto per anni una serie di esperienze, non con una persona in particolare o in una convivenza, ma esperienze frequenti con diverse persone. Ora ha trovato una relazione stabile. È un miglioramento, se non altro sul piano umano, il non passare più da un rapporto all’altro, ma stabilizzarsi in una relazione che non è basata solo sulla sessualità. Si condivide una vita, si condividono gioie e sofferenze, ci si aiuta a vicenda. Bisogna riconoscere che questa persona ha fatto un passo importante per il proprio bene e per il bene degli altri, anche se, certamente, non è una situazione che la Chiesa possa considerare regolare. Il giudizio sugli atti omosessuali come tali è necessario, ma la Chiesa non deve guardare prima nella camera da letto, ma nella sala da pranzo! Occorre accompagnare.
In definitiva, come porsi in maniera corretta, cioè evangelica, davanti a tutte queste sfide?
Papa Benedetto ha mostrato in modo magnifico nel suo insegnamento che la vita cristiana non è in prima battuta una morale, ma un’amicizia, un incontro, una persona. In questa amicizia noi impariamo come comportarci. Se diciamo che Gesù è il nostro maestro, vuol dire che impariamo da lui direttamente il cammino della vita cristiana. Non è un catalogo di dottrina astratta o uno zaino pieno di sassi pesanti che dobbiamo portare, ma è una relazione viva. Nella vita e nella pratica cristiana dellasequela Christi questo cammino cristiano mostra la sua giustezza e i suoi frutti di gioia. Gesù ci ha promesso che su questo cammino «lo Spirito Santo v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Tutta la dottrina della Chiesa acquista senso solo all’interno di una relazione viva con Gesù, di un’amicizia con lui e di una docilità rispetto alla guida dello Spirito Santo. Qui sta la forza dei gesti di Papa Francesco. Credo che viva davvero il carisma dei gesuiti e di sant’Ignazio, quello di essere disponibile dinanzi al movimento dello Spirito Santo. È anche la dottrina classica di san Tommaso sulla legge nuova, la legge di Cristo, che non è una legge esteriore, ma l’opera dello Spirito Santo nel cuore dell’uomo. Certamente, abbiamo anche bisogno dell’insegnamento esteriore, ma perché esso sia realtà viva bisogna passare attraverso il cuore. Quando osserviamo un matrimonio cristiano vissuto, percepiamo il significato del matrimonio; è vedendo madre Teresa in azione, nei suoi gesti, che comprendiamo che cosa vuol dire amare i poveri. La vita ci insegna la dottrina, più di quanto la dottrina non ci insegni la vita.
Il Sinodo ha conosciuto dibattiti e tensioni sulla conciliazione tra dottrina e misericordia, tra dottrina e pastorale. Come unire le due dimensioni?
Tocchiamo qui il cuore del metodo sinodale. La dottrina della Chiesa è la dottrina del Buon Pastore. In un atteggiamento di fede, non esiste un’opposizione fra «dottrinale» e «pastorale». La dottrina non è un’enunciazione astratta senza legame con «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7). La pastorale non è una realizzazione degradata, perfino pragmatica, della dottrina. La dottrina è l’insegnamento del «Buon Pastore», che manifesta nella sua persona il vero cammino della vita, insegnamento dato da una Chiesa che camminando va incontro a tutti coloro che sono in attesa di una Buona Notizia, attesa talvolta custodita segretamente nel cuore. La pastorale è una dottrina della salvezza in actu, Parola di vita per il mondo del «Buon Maestro». Esiste una involuzione tra queste due dimensioni della parola di Dio, di cui la Chiesa è portatrice. La dottrina senza pastorale non è che un «cembalo che tintinna» (1 Cor 13,1). La pastorale senza la dottrina è solo «vista umana» (Mt16,21). La dottrina è per prima cosa la Buona Notizia: «Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,16). È l’annuncio della verità fondamentale della fede: Dio ha usato misericordia. E tutto ciò che la Chiesa insegna è questo messaggio, che si traduce in seguito nelle dottrine complementari, in una vera gerarchia di verità tanto dogmatiche quanto morali. Dobbiamo continuamente tornare al kerygma, a ciò che è essenziale e dà senso a tutto il nostro corpus dottrinale, in particolare all’insegnamento morale.
Occorre essere pastori…
Papa Francesco chiama ognuno di noi pastori a una vera conversione pastorale. Nel discorso finale del Sinodo, egli ha ben riassunto ciò che ha inteso quando ha detto che l’esperienza del Sinodo è un’esperienza di Chiesa, della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica e composta da peccatori, bisognosi della Sua misericordia. È la Chiesa che non ha paura di mangiare e di bere con le prostitute e i pubblicani. Il Papa esprime perfettamente l’equilibrio che deve caratterizzare questa conversione pastorale. Al termine di questo suo discorso, tutti si sono spontaneamente alzati e c’è stato un applauso unanime e intenso. Tutti hanno percepito che era il Papa, Pietro, a parlare.
* * *
Chiudiamo la nostra conversazione convinti entrambi che il Sinodo ordinario dedicato alla vocazione e alla missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo sarà una tappa ulteriore dentro un più ampio cammino che richiede la lucidità dello spirito, frutto dell’esperienza, e non solamente del concetto. «Si tratta di un cammino di esseri umani», mi dice il Cardinale. «Accanto alle consolazioni ci sono anche altri momenti di desolazione, di tensione e di tentazione. Noi tutti siamo chiamati a un discernimento spirituale».
1. A. Spadaro, «“Chiesa di puri” o “nassa composita”? Intervista a Jean-Miguel Garrigues O.P.», in Civ. Catt.2015 II 493-510.
2. Per «atto intrinsecamente cattivo» (intrinsece malum) si intende quell’azione la cui connotazione morale è tale per cui in nessun caso potrà mai cambiare da negativa a positiva. Dunque si tratta di un atto considerato moralmente cattivo sempre, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze.
© Civiltà Cattolica pag.494-510
Redazione Papaboys (Fonte Padre Antonio Spadaro S.I. La Civiltà Cattolica)
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