Medjugorje

Medjugorje. C’è un miracolo sul quale la Chiesa davvero non ha dubbi: quello della carità!

«Purtroppo Medjugorje è cambiata molto rispetto all’inizio. Noi pellegrini abbiamo portato tanta – mi si passi il termine – “porcheria”. Ma non ci si deve fermare alle apparenze: il programma di preghiera è quello degli inizi, grazie ai frati Francescani che reggono la parrocchia». Parola di Alberto Bonifacio, lecchese, 80 anni ben portati, che a Medjugorje c’è andato più di 400 volte, quasi sempre portando aiuti per la popolazione locale, senza distinzioni religiose.

«Io sogno e prego», confida a Credere, «perché Medjugorje diventi un grande centro della carità verso tutti i poveri causati dalla guerra (cattolici, ortodossi e musulmani), utilizzando parte delle offerte portate dai tanti pellegrini. Sogno e prego perché, promuovendo incontri ecumenici e con esponenti di varie religioni, Medjugorje diventi un grande centro di dialogo, di riconciliazione e di pace, nello spirito di san Francesco». Alla vigilia del trentacinquesimo anniversario delle apparizioni mariane, ripercorrere la storia dell’incontro di Alberto con Medjugorje – nella sua casa di Pescate, zeppa tanto di statuette di Maria quanto di pacchi e generi alimentari – significa dar voce a un “pioniere”, testimone della primissima fase degli eventi in Bosnia-Erzegovina.

Come avvenne il suo primo incontro con Medjugorje?

«Sull’ultimo numero del 1981 Famiglia Cristiana pubblicò una fotografia con due dei veggenti, Vicka e Jakov, e la chiesa del paese. Mi colpì. «Saranno i soliti visionari», pensai. E per un po’ non sentii parlare più di Medjugorje. Nel giugno del 1983 Pietro Voltan, un mio collega, si recò a Medjugorje. Tornato, me ne parlò con entusiasmo e decisi che ci sarei andato anch’io».

L’occasione?

«Alcuni lecchesi di Comunione e Liberazione stavano organizzando un pullman con la Rusconi Viaggi e mi aggregai a loro. Siamo partiti per l’Immacolata del 1983: una quarantina di persone, senza nessun sacerdote e con un autista che non sapeva bene dove andare (a quell’epoca Medjugorje era totalmente sconosciuta). La Pasqua successiva, in aprile, ho accompagnato il mio primo pellegrinaggio».

Sarebbe diventato il primo di una lunga serie…

«Quella volta è stata particolarmente interessante perché ho potuto scattare le prime foto ai veggenti durante l’estasi: erano cinque, mancava solo Mirjana. Dopo quel primo viaggio ho dato a Eliseo Rusconi, titolare dell’omonima agenzia di viaggi, la mia disponibilità ad accompagnare i pellegrinaggi per aiutare tanti fratelli e sorelle a compiere una forte esperienza di fede e di preghiera».

Com’era il clima di quel periodo?

«Bisognava stare attenti a non portare nessun oggetto religioso, perché c’era ancora la persecuzione. Una volta, atterrati a Mostar, una poliziotta rovistò nel mio bagaglio, trovando un’audiocassetta nella quale avevo registrato una catechesi di padre Jozo Zovko, il parroco di Medjugorje, considerato il nemico numero uno del regime comunista! Risultato: cassetta sequestrata».

Poi, nel 1991, è iniziata una guerra atroce…

«All’epoca avevo accompagnato già 60 pellegrinaggi. Quell’anno non ero andato a Medjugorje per l’anniversario del 25 giugno, ma a settembre accompagnai un pellegrinaggio in aereo: atterrammo all’aeroporto militare di Mostar, in mezzo ai caccia serbi schierati. Eliseo ed io abbiamo capito, a quel punto, che non era più possibile accompagnare i pellegrini a Medjugorje. La guerra non era ancora scoppiata in Bosnia (accadrà nell’aprile del 1992), ma lungo la costa dalmata le strutture alberghiere si stavano riempiendo di profughi, provenienti dal nord della Croazia».

E quel fatto la interpellò?

«Il 25 novembre 1991, durante la trasmissione che conducevo su Radio Maria, lanciai l’idea: portare aiuti ai profughi e poi proseguire per Medjugorje. Il giorno dopo ricevetti tante telefonate: c’era chi metteva a disposizione un camion, chi un furgone… Da allora ho cominciato a girare per tutta la Bosnia con viveri e altri aiuti, arrivando anche nei campi profughi in posti difficilmente raggiungibili».

Vent’anni fa, nel febbraio 1996, si concludeva il terribile assedio di Sarajevo, protrattosi per quasi quattro anni. Che ricordi conserva?

«A Sarajevo si accedeva solo attraverso una galleria, scavata sotto l’aeroporto di Ilidza, lunga 860 metri e alta meno di un metro e mezzo, puntellata con putrelle di ferro. Chi era alto di statura, come me, faticava a passare: qualcuno era uscito con la fronte sanguinante. Io mi ero premunito di un bel cappellaccio di feltro; un altro lo prestai a Ovidio Bompressi (militante di Lotta Continua, condannato nel 2000 come esecutore dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi, poi graziatondr)».

Che ci faceva uno come lui da quelle parti?

«Bompressi è uno dei compagni di viaggio “speciali” che abbiamo avuto negli anni; ci era stato presentato da Erri De Luca, lo scrittore, che ha partecipato diverse volte ai nostri convogli di solidarietà. Una volta a Medjugorje venne ad ascoltare la testimonianza di Vicka e poi scrisse un articolo nel quale pennellò in maniera mirabile la figura della veggente. Nei nostri viaggi, facciamo di tutto per avere ogni giorno la Messa: De Luca e Bompressi non vi partecipavano, ma sono sempre venuti con noi a Medjugorje e ci hanno sempre molto rispettato. Così come Adriano Sofri, che aiutammo a uscire da Sarajevo, dove si trovava intrappolato da mesi. Poté scappare grazie al nostro intervento; lo portammo a Medjugorje e, quindi, in Italia. Durante il viaggio ci disse: “Io non ho fede, però vedendo che voi venite qui tutti i mesi, sotto le bombe, senza che vi sia mai successo niente, ho l’impressione che abbiate una protezione molto particolare”».

Nel 1998 la guerra finisce…

«Ma i problemi rimangono. Molti sono ancora i profughi che aiutiamo in diverse parti della Bosnia, spesso relegati in container. Per questo continuiamo a organizzare almeno una volta al mese un “pellegrinaggio di carità”. Lungo il viaggio, collegati tra noi via radio come i camionisti, preghiamo; mettiamo al centro di ogni nostra giornata l’Eucaristia e cerchiamo di riservare una giornata intera in preghiera a Medjugorje».

I vostri “pellegrinaggi di carità” hanno comunque, sempre, al centro Medjugorje. Perché?

«Quello che mi interessa a Medjugorje non sono tanto i segni esteriori, quanto vivere nel concreto il messaggio della Madonna. Quando è scoppiata la guerra, è come se avessi sentito il dialogo di Cana tra Maria e Gesù: “Non hanno più vino”. Che per me si traduceva in: “Non hanno più case, non hanno più pane, non hanno più medicine, non hanno più amore, non sanno più convivere e perdonarsi…”».

Senza la preghiera la solidarietà potrebbe rischiare di ridursi a filantropia…

«Io chiedo sempre alla Madonna: “Vieni con noi dai poveri e porta il tuo Gesù”. Qualche volta ho avuto la sensazione che il nostro interlocutore capisse che noi non portiamo solo cose materiali. Se riusciamo davvero a diventare Eucaristia vivente, allora ci lasciamo “mangiare” dagli altri e diamo loro un po’ della nostra vita».

Focus
LA BIOGRAFIA

Originario di Vicenza, nel 1954 si è trasferito a Lecco e a 18 anni si è avvicinato all’Azione cattolica. Successivamente è entrato nell’istituto secolare “Cristo Re”, società di vita apostolica fondata da Giuseppe Lazzati, che raduna laici consacrati. Dopo una lunga esperienza professionale in banca, da quando è in pensione dedica tutto il suo tempo libero all’accompagnamento spirituale di pellegrini a Medjugorje (e in altri santuari mariani) e all’organizzazione dei “convogli di solidarietà” per la Bosnia-Erzegovina, nonostante alcuni problemi di salute, tra cui un tumore maligno quattro anni fa.

Redazione Papaboys (Fonte www.credere.it/Alberto Bonifacio)

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