L’accostamento tra i due è ispirato dalla similitudine dei contesti in cui vissero, caratterizzati entrambi dalla corruzione e dalla decadenza dei costumi. È anche la conferma che il martirio non ha tempo e che pure ai giorni nostri si muore perché si è cristiani. Puglisi voleva fare il prete fino in fondo e, forte del Vangelo, sottrarre i ragazzi alle grinfie della malavita, far pensare, ridare alla gente la speranza, far comprendere che “il lume” della fede dà senso alla vita. Era, e resta, l’emblema della Chiesa, di come si deve agire sia nei confronti di quella criminalità organizzata che si è trasformata in fenomeno globale e in impresa economico-finanziaria, sia verso l’istituto della famiglia “tradizionale”. Due “nervi scoperti” della nostra cosiddetta civiltà che anche don Puglisi teneva in grande considerazione, curandoli con la forza e la mitezza del buon pastore.
La Conferenza episcopale sicula, nel 1982, commentando le parole di Giovanni Paolo II ai vescovi siciliani in visita ad limina («risanare alcune piaghe della Sicilia, prima fra tutte la mafia», aveva ricordato il Papa), le aveva percepite come un momento di non ritorno nella presa di distanza da antichi e nuovi padrini. Gente malvagia, che riveste di linguaggio devoto e di processioni la propria “religione” e deturpa il senso stesso della famiglia e delle sue relazioni con gli pseudopadrinati, i “battesimi” pervertiti, i feudi familiari, le relazioni deviate. Puglisi interpretò in maniera eroica e militante questa presa di distanza, questo spartiacque tra il bene e il male, ma anche tra un “prima” e un “dopo” della coscienza ecclesiale di fronte alla lunga vicenda della convivenza tra il buon cristiano e ogni cittadino onesto — che si riconosce nelle istituzioni (tra le quali la Chiesa) — e “cosa nostra”, che calpesta le regole evangeliche e quelle della convivenza civile perché non sopporta altri dèi fuori di sé.
La mafia ha ucciso quel prete, ma da allora possiamo dire che da quel sangue è nato un popolo di cittadini e di credenti, nuovo, che anche grazie alle forti e accorate espressioni degli ultimi pontefici cresce ogni giorno. Oggi questo martire della fede viene additato dalla Chiesa a tutti non solo come modello da imitare nel prendere le distanze dalla criminalità, ma come emblema del modo “straordinariamente ordinario” di essere cristiano e prete e voce critica contro chi attenta al diritto alla vita, alla giustizia, all’equità nei rapporti sociali ed economici e alle genuine relazioni familiari.
Un cristiano in combattimento nel tempo attuale, Puglisi, ma con le sole “armi” di chi predica e pratica con coerenza la fede, l’amore, la pace, le virtù teologali e cardinali, la mitezza, la pazienza, la fortezza, la perseveranza.
Quando scriveva la sua lettera al vescovo Policarpo, Ignazio era in viaggio verso Roma, dove avrebbe subito il martirio, inteso come perfetta unione con Cristo. Puglisi si poneva questa domanda: «Cosa vogliono oggi da noi sacerdoti i cristiani? Ci vogliono più vicini o ci vogliono più lontani? Più umani o più divini? Dobbiamo marcare una distinzione, una eccezionalità, una distanza; o dobbiamo confonderci, assimilarci, sparire nella massa? Ecco il dilemma». Un dilemma apparente, la cui via d’uscita, insegna il beato, è anche ai nostri tempi quella d’Ignazio: «Il vostro battesimo sia come lo scudo, la fede come elmo, la carità come lancia, la pazienza come vostra armatura». O come avrebbe detto il parroco di Brancaccio: «Tenere duro, come l’incudine sotto il martello». di Vincenzo Bertolone, Arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace
L’Osservatore Romano, 21 ottobre 2014.
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