Pubblicità
HomeNewsFinis MundiMeriam: colpevole di apostasia nel Sudan islamico

Meriam: colpevole di apostasia nel Sudan islamico

meriam-kmNG-U430102268615563ziF-593x443@Corriere-Web-Sezioni-593x443Un tribunale sudanese ha condannato a morte per impiccagione una donna cristiana con l’accusa di apostasia. Meriam Yahya Ibrahim, 27 anni, è incinta di otto mesi. Il giudice le ha inflitto anche la pena di 100 frustate per adulterio, perché il suo matrimonio con un uomo cristiano non è considerato valido dalla Sharia. Meriam è stata arrestata e accusata di adulterio nell’agosto dello scorso anno, dopo la denuncia di un fratello. L’accusa di apostasia era stata aggiunta in un secondo momento, quando Meriam, cresciuta dalla madre etiope come cristiana ortodossa, aveva riferito al giudice di non essere musulmana. Secondo la Sharia se il padre è musulmano, la figlia è automaticamente musulmana.

Sempre più spesso, episodi di cronaca, provenienti da paesi islamici, finiscono per scuotere bruscamente la nostra coscienza e la nostra vita quotidiana. Queste situazioni ci appaiano spesso incomprensibili, surreali e lontane dalla nostra cultura, dalle nostre certezze e dal nostro senso comune.

Le radici di tali episodi e degli stessi precetti giuridici che li disciplinano sono rintracciabili nella tradizione islamica. Nella storia dell’Islam, una categoria di nemici verso cui era lecito muovere guerra era quella degli apostati, (murtadd). La guerra all’apostasia si presentò per la prima volta alla morte del profeta, quando un certo numero di tribù arabe si rifiutò di riconoscere il nuovo califfato. Le guerre che ne seguirono, e con le quali furono riportati all’obbedienza, sono conosciute negli annali musulmani come le “Guerre di Ridda” o “dell’Apostasia”, (termini utilizzati per definire l’abbandono della religione islamica). Questi accadimenti furono presi come riferimento nei testi islamici quali modello di comportamento da seguire per combattere l’apostasia. La guerra contro gli apostati, analogamente ai casi del miscredente (kafir), poteva essere equiparata alla jihad. Il miscredente è chiunque non abbia mai accettato l’Islam. L’apostata è una persona che è stata o è divenuta musulmana e che, in seguito, ha abbandonato l’Islam adottando un’altra fede.

Rifiutando la fede originaria, l’apostata rinuncia alla sua lealtà nei confronti dello Stato musulmano, trasformandosi così in un nemico contro cui è legittimo, anzi obbligatorio combattere. Il musulmano che abbandona la sua fede non è, quindi, solo un rinnegato, bensì un traditore; come tale, la legge islamica prevede che sia punito. L’unica possibilità è la ritrattazione o la morte.

Oggi, in molti paesi a maggioranza musulmana, cambiare religione è considerato un reato grave e in alcuni casi punibile con la pena di morte. Ogni anno ci sono tanti casi di persone uccise dalla famiglia, se non dallo Stato, perché avendo abbandonato pubblicamente l’Islam, devono essere puniti. Spesso, l’unica soluzione è restare musulmani, vivendo tale cambiamento solo nel proprio cuore. Questo diviene impossibile quando vi è l’intenzione di sposarsi con un cristiano, proprio come nel caso di Meriam.

Nel Sudan, l’articolo 126 del Codice Penale del 1991 prevede la pena capitale per l’apostasia salvo ritrattazione. In Afghanistan il regime dei talebani, al potere dal 1996 al 2001, aveva introdotto la pena di morte per tutti coloro che si convertivano ad altre religioni diverse dall’Islam. L’Arabia Saudita ha sempre ritenuto l’apostasia un reato da punire con la pena di morte, in considerazione al fatto che la sua costituzione è fondata sul Corano interpretato in senso rigorista. L’assassinio del presidente egiziano Anwar al-Sadat, da parte di quattro membri di un gruppo segreto di fondamentalisti islamici, è proprio la dimostrazione della rigorosa applicazione delle norme riguardanti l’apostasia. Sadat era accusato di essere musulmano solo di nome, avendo messo da parte la Sharia e i suoi legittimi interpreti, introducendo un sistema legislativo, giudiziario, sociale e culturale di tipo occidentale.

La questione della libertà religiosa, in particolare quella legata all’apostasia, è da sempre all’ordine del giorno in molte parti del variegato mondo islamico. Ad oggi, le risposte a tale problematica sono deludenti e spesso si nascondono dietro dogmi e teologie che si discostano persino dal Corano, fonte principale del credo islamico.

Il Corano recita: “Non vi è costrizione nella fede” (2, 256); “Di’: La verità proviene dal vostro Signore: creda chi vuole e chi neghi» (18, 29). Al tempo stesso, l’apostasia è considerata un peccato severamente punito da Dio: “Coloro che hanno barattato la fede con la miscredenza, non potranno nuocere a Dio in nulla e avranno doloroso castigo”, (3, 177); “Coloro che cedettero e poi negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che accrescere la loro miscredenza. Allah non li perdonerà e non li guiderà sulla via”, (4, 137); “Coloro che, tra voi, si allontanino dalla loro religione e muoiono increduli: ecco quelli le cui azioni saranno vane in questo mondo e nella vita futura; ecco quelli che verranno gettati nel fuoco e vi resteranno immortali”, (2, 217). Solo un versetto del Corano parla di una punizione terrena, senza precisare in che cosa consista. Tale versetto recita: “Essi hanno professato l’incredulità, poi hanno giurato su Dio che non avevano pronunciato tali parole. Essi furono increduli dopo essere stati sottomessi. Essi aspiravano a ciò che non hanno ottenuto e non hanno trovato al posto del favore che Dio e il suo profeta hanno ben voluto loro accordare. Se essi si pentissero, ciò sarebbe meglio per loro, ma se si allontanassero Dio li punirebbe con sofferenze in questo mondo e nell’altro e non troverebbero sulla terra né amici né difensori”, (9, 74).

Le narrazioni di Maometto (hadith), che costituiscono la seconda fonte del diritto musulmano, sono, al contrario, più esplicite. Entrambi gli hadith riportati appartengono alla categoria dei detti riferiti da una sola persona. Maometto avrebbe detto: “Colui che cambia religione, uccidetelo”; “È permesso attentare alla vita di un musulmano solo nei tre seguenti casi: la miscredenza dopo la fede, l’adulterio dopo il matrimonio, l’omicidio senza motivo”.

Nonostante i fondamenti teologici a favore della pena di morte per l’apostata siano deboli, gran parte dei dotti islamici continua a far riferimento ad una giurisprudenza che risale all’epoca del primo secolo della nascita dell’islam, quando a-riddah (in arabo significa “tornare indietro”) era considerato un grave problema politico. Dopo la morte del profeta, vi erano musulmani che ritornavano al paganesimo e si coalizzavano con i nemici dell’allora nascente comunità islamica; questo fu il motivo principale per il quale l’apostata veniva punito con la pena capitale.

Nell’opera “Europa e Islam” di Bernard Lewis, si afferma che: “La storia sacra dell’islam, narrata appunto dal Corano e nelle biografie tradizionali del profeta, nonché la storia semi-sacra dello Stato islamico, costituiscono il nucleo della memoria e della consapevolezza di sé di tutti i musulmani, ovunque vivano. Questi fatti sono, inoltre, il resoconto di un’avanzata rapida e ininterrotta, in cui i capi di religioni, considerate false e superate, furono sopraffatti. In questo modo, fu spianata la via per il trionfo finale della fede e delle armi musulmane, che recavano la parola di Dio all’umanità tutta e imponevano la legge di Dio al mondo intero”.

Ancora oggi, in virtù di una de contestualizzazione dei testi islamici e di specifici obiettivi politici, teologi islamici continuano a seminare il germe della violenza e dell’intolleranza influenzando la vita e le giuste aspirazioni di pace e prosperità di interi popoli.

Yusuf al-Qaradawi, principale teologo di riferimento dei Fratelli musulmani, lega l’apostasia al reato di alto tradimento nei confronti della umma (la comunità islamica). Egli ritiene che lo Stato islamico debba punire con la pena di morte colui che lascia la religione islamica.

Abbasli Amid Zangani, sciita iraniano ed esperto di diritto musulmano, ha ribadito che: “la legge dell’Islam proibisce la sottomissione a qualsiasi accordo culturale che subordini le culture musulmane a quelle non musulmane. Molti versetti del Corano proibiscono l’amicizia con i non musulmani per preservare il prestigio e la supremazia dell’Islam. Accogliere idee e usanze non musulmane implicherebbe la perdita dell’indipendenza e del primato dell’Islam a vantaggio di altri. La trasformazione degli usi e costumi islamici e la tendenza a inchinarsi a quelli non islamici, è la peggiore delle perversioni”.

In tale contesto, non rimane che pregare per Meriam e per il piccolo che porta in grembo, vittima inconsapevole di tante assurdità. di Severis

sudan_300 

SCRIVI UNA RISPOSTA

Scrivi il commento
Inserisci il tuo nome