Comincia a fare davvero freddo in New Hampshire e Meriam Ibrahim si raggomitola sul divano insieme ai suoi due figli, Martin, di due anni, e la piccola Maya, di sette mesi. Al vestito di cotone colorato troppo estivo per la stagione, la donna sudanese ha sovrapposto una giacca nera, ma i piedi sono ancora senza calze: un’abitudine che non riesce a perdere. Il tappeto scuro al centro del minuscolo appartamento è costellato di sonagli colorati e di camioncini, mentre tre palloncini vincono la forza di gravità sul soffitto del soggiorno: un piccolo omaggio di alcuni amici a Meriam per il suo 27esimo compleanno, il primo lontano dal Sudan. Ma l’incontenibile Martin ignora giocattoli e i nastri rossi penzolanti sopra il sofà e preferisce accendere e spegnere l’interruttore di una lampada da tavolo.
È la seconda volta che Avvenire passa qualche ora in compagnia della giovane cristiana, liberata lo scorso giugno, grazie a una mobilitazione internazionale, dal carcere di Karthum dove era stata rinchiusa per essersi rifiutata di convertirsi all’islam. Dallo scorso agosto, lei e la sua famiglia vivono negli Stati Uniti. I primi tempi erano stati difficili, aveva raccontato qualche settimana dopo il suo arrivo, perché al trauma della lunga prigionia e della costante preoccupazione per la salute dei suoi bambini, che erano rinchiusi in cella insieme a lei, si era aggiunta la paura che qualcuno potesse fare del male a lei o alla sua famiglia anche nella loro nuova casa, che la condanna a morte per apostasia pronunciata il 15 maggio scorso da un giudice sudanese l’avesse seguita anche dall’altra parte dell’Atlantico.
Tutt’oggi quel timore non l’ha abbandonata completamente. Meriam è costantemente in guardia quando esce a fare compere o per andare a Messa, cercando sempre di essere accompagnata dal marito e da uno dei parrocchiani della cattedrale di Manchester, che li stanno aiutando. Ma ora almeno la città del Nordest americano che la circonda è un po’ più familiare, e la solidarietà che le è giunta da molte parti la fa sentire meno sola. A settembre, ad esempio, Meriam ha ricevuto a Washington un premio da parte di un’associazione cristiana, il Family Research Council, che ha così voluto riconoscere la sua devozione e il suo coraggio. Meriam parla ancora attraverso un’interprete, ma i suoi occhi lasciano trapelare che riesce a seguire buona parte delle domande in inglese, nonostante sia costantemente distratta dai tentativi di Martin di far crollare al suolo l’abat-jour.
Meriam, le manca casa?
Adesso sto meglio, mi sto abituando alla vita negli Stati Uniti. E al freddo. Ma anche se non ho più nessun familiare in Sudan, mi manca comunque moltissimo il mio Paese. Non so se potrò mai tornarci perché per il governo sudanese resto sempre un’apostata e perché ho ricevuto molte minacce da parte di gruppi estremisti. È triste, ma più di tutto voglio che i miei figli crescano in un posto dove nessuno possa dire loro in che cosa devono credere.
Trasmette ai suoi bambini la cultura e le tradizioni sudanesi?
Faccio quello che posso. Soprattutto, cerco di trasmettere loro la mia fede e i miei valori. Il regalo più grande che voglio fare a Maya e a Martin è la libertà di scegliere come vivere la loro vita. La libertà che io ho rischiato la vita per ottenere.
Che le ha insegnato ad apprezzare il valore della libertà?
Amah, mia mamma. Che non c’è più.
Che cosa la impegna in questi giorni?
Studio l’inglese, mi occupo dei bambini e di mio marito Daniel (che è costretto su una sedia a rotelle dalla distrofia muscolare, ndr) e aspetto che il governo statunitense rilasci a me la carta di residente permanente e ai bambini il certificato di cittadinanza americana.
Son avete ancora ricevuto nessun documento?
Non ancora. Le cose vanno per le lunghe.
Segue le notizie sui giornali?
Sì, e vedo con orrore quanti cristiani sono perseguitati o uccisi nel mondo, soprattutto donne. Sono molto preoccupata in particolare per Asia Bibi. La comunità internazionale deve mobilitarsi per lei come ha fatto per me. Troppe donne nel mondo rischiano ancora di morire a causa della loro fede o di leggi ingiuste che le rendono vulnerabili, più degli uomini. Troppe Meriam non sono abbastanza fortunate come lo sono stata io.
Dal carcere sapeva quante persone si erano date da fare per la sua liberazione?
Me lo avevano detto, ma l’ho capito veramente quando sono arrivata in Italia. Però sapevo che Dio mi avrebbe protetta. Non so perché ha voluto che sopravvivessi, ma so che Dio è fedele. Ora ho il dovere di raccontare la mia storia e di mobilitarmi per chi soffre più di quanto ho sofferto io. Spero che questo aiuti altre donne che subiscono ingiustizie o che sono incarcerate a causa della loro fede, donne di cui non conosciamo nemmeno il nome.
Prima del suo arresto, aveva testimoniato altri episodi di persecuzione nei confronti dei cristiani in Sudan?
La persecuzione dei cristiani era dappertutto attorno a me quando ero piccola e mentre crescevo. Alcuni di noi cercavano di nascondere la loro fede, ma la gente lo veniva a sapere lo stesso, lo capiva dal tuo nome, dalla famiglia da cui provieni. Spesso per i cristiani i prezzi nei negozi per te sono più alti, la merce non è disponibile, i posti di lavoro scompaiono, e non ci sono promozioni sul lavoro.
Ci sono persone in Sudan che però lottano per cercare di migliorare la situazione dei cristiani, come gli avvocati che l’hanno difesa.
Ci sono molti musulmani che non accettano la persecuzione dei cristiani. E sono molto preoccupata per i miei avvocati. La causa civile contro di me va avanti, e so che i miei legali sono sotto sorveglianza, che non possono più praticare la legge liberamente. Temo che la loro vita sia stata rovinata dall’aver difeso me.
Quando la rivedremo in Italia?
Abbiamo ricevuto vari inviti e sarei felicissima di poterli accettare. Mi manca l’Italia, tantissime persone lì ci hanno fatto sentire il loro affetto. Non appena riceveremo i documenti per la residenza permanente e potremo viaggiare, vorrei poter venire a ringraziare tutti personalmente del loro supporto.
Di Elena Molinari per Avvenire