“Era la notte te il 23 e il 24 luglio del 2014 – ricorda Napoli, presidente di Italians for Darfur e autrice del libro ‘Il mio nome è Meriam’ – quando Meriam lasciava il Sudan, Paese in cui era stata condannata a morte per apostasia. Ormai sono lontani i giorni del terrore e della prigionia. Lei è la sua famiglia si godono l’estate, il freddo e le prime difficoltà di adattamento delle stagioni fredde sono solo un ricordo. Sono stati mesi duri. Ma anche durante le frequenti nevicate autunnali e le temperature rigide invernali nelle giornate che scorrevano lente nel New Hampshire Meriam ha sempre avvertito intorno a sé il calore di quanti si sono stretti intorno a lei e ai suoi cari per sostenerli. E non li hanno mai lasciati soli”.
Oggi, a un anno di distanza, tutti loro sono in un luogo sicuro. Lontani da minacce dirette. I bambini stanno bene, anche se Meriam continua ad essere preoccupata per la salute futura di Maya, nata in condizioni estreme. Nell’appartamento che li ospita dalla fine del 2014, è un via vai continuo di familiari, amici e volontari delle associazioni che li aiutano dal loro arrivo negli States.
È in una zona residenziale e tranquilla. La casa è spaziosa e luminosa. Molto diversa dal monolocale in cui vivevano fino a pochi mesi fa. Ormai è estate, il freddo e le prime difficoltà di adattamento delle stagioni fredde sono solo un ricordo. Sono stati mesi duri. Ma anche nelle giornate che scorrevano lente durante le frequenti nevicate autunnali e le temperature rigide invernali Meriam, che dagli Stati Uniti continua la sua battaglia di fede e quotidianamente si batte per i diritti dei cristiani perseguitati meno fortunati di lei, ha sempre avvertito intorno a sé il calore di quanti si sono stretti intorno a lei e alla sua famiglia per sostenerli. E non li hanno mai lasciati soli.
[box]La nuova vita di Meriam[/box]
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A cura di Redazione Papaboys fonti: Avvenire e Huffington Post
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