Mauro Leonardi

MESSA PER IL BOSS SOLLECITO/ Don Michele, a volte una candela è la “luce” più adeguata

Il boss Rocco Sollecito era un esponente di spicco del clan Rizzuto e quest’estate era stato ucciso in Canada nell’ambito delle lotte tra mafia e ‘ndrangheta che si stanno consumando laggiù. Da allora la sua morte non è mai stata solo una questione tra lui e Dio ma è diventata subito qualcosa che riguardava anche la società: quella civile e quella religiosa.
In occasione delle feste natalizie il parroco di Grumo, il paese di Sollecito, voleva celebrare una Messa di suffragio cui avrebbe dovuto partecipare anche il figlio Franco – a sua volta considerato un esponente del clan – e aveva affisso un manifesto in cui invitava tutti i fedeli alla celebrazione dicendosi spiritualmente vicino alla famiglia.
Decisione, quella del parroco, sommamente imprudente dal momento che, vista la caratura criminale di Sollecito, il questore di Bari nel giugno scorso aveva già vietato la Messa di esequie nel paese avito obbligando a celebrarla all’alba. Già allora, come si è ripetuto ieri, il parroco don Michele Delle Foglie si era infuriato dicendo che “nessuno può dirmi per chi devo o non devo fare Messa”. Peccato che ieri, oltre all’autorità civile, si sia espressa negativamente anche quella religiosa: cioè proprio chi ha la potestà di disciplinare l’attività di un prete connessa al ministero sacerdotale. Con una lettera durissima, il vescovo di Bari-Bitonto Mons. Cacucci ha preso le distanze dal parroco invitandolo a non celebrare: e alla fine don Michele Delle Foglie ha desistito e la Messa non si è fatta.
Al di là del polverone sollevato da alcuni media, don Michele si sbaglia ad affermare che nessuno può dire ad un prete “se come e quando” celebrare una Messa, soprattutto quando a parlare sono questore e vescovo.
Non siamo soli a questo mondo ma “intrisi” gli uni degli altri, legati come siamo da tante relazioni, consuetudini, detti e non detti, di cui non possiamo non tenere conto. Non può ignorare don Michele che un funerale in forma pubblica di un personaggio di spicco della criminalità organizzata, diviene per forza un palcoscenico per dire e mandare a dire molto più che tante preghiere al Cielo. Un funerale in forma pubblica di un personaggio di spicco della criminalità organizzata serve da prova generale di nuovi assetti criminali: non è necessario essere un criminologo o un esperto anti mafia per dirlo, basta aver visto uno dei tanti film sulla mafia che sono passati sul grande schermo. Per questo la decisione del vescovo, che è stata quella decisiva per don Michele, è legata a quella del questore: perché questi ha vietato la celebrazione del rito religioso nella convinzione che “potrebbe essere occasione di turbative, azioni di intimidazione e opera di proselitismo”.
Aggiungo un secondo ordine di considerazioni perché, nelle sue dichiarazioni, don Michele si riferisce anche a queste ultime. La Messa in suffragio di Rocco Sollecito è stata vietata non solo per evitare cerimonie “modello Casamonica” ma anche per una cattiva abitudine che abbiamo un po’ tutti in Italia: che è quella di trasformare una Messa di suffragio in “cerimonia di canonizzazione”. A sentire le omelie dei funerali, in Italia muoiono solo i buoni e i santi-subito. Di tutto il male che leggiamo quotidianamente sui giornali o che ascoltiamo ascoltando la nostra coscienza, nei funerali non ce n’è mai traccia. Dove vanno a morire i cattivi?
Ecco, tra le tante cose sbagliate fatte e dette da don Michele, una l’ha detta giusta: i funerali non servono ad onorare i morti ma a loro suffragio. Poi però nella pratica don Michele ha torto perché sa benissimo che in Italia è difficilissimo celebrare un funerale senza parlar bene del defunto.
Ciò detto, possiamo ugualmente pregare per Rocco Sollecito. Anche senza Messa in suffragio possiamo ricordare chi siamo, per cosa viviamo e che spesso il silenzio è il discorso più appropriato e le candele sono la luce più adeguata. Perché la nostra vita non ha bisogno di essere illuminata su nessun palcoscenico ma le serve solo una penombra. Per lasciare che il dolore sia al riparo da strumentazioni o indecorose esibizioni.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da IlSussidiario.net



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