«Luoghi orrendi», si legge, «strutture in stato pietoso», nessuna privacy, stanzoni dormitorio con caldo estremo e 300 letti, e dove «circa il 70% dei soldati assegnati al servizio di detenzione erano scarti dell’esercito», perché essere assegnato alla detenzione era considerata una punizione.
E ancora, casi di molestie sessuali da parte del personale, utilizzo di soldati al posto di assistenti sociali, inadempienze nelle procedure sono descritti da alcune ong, da testimoni e soprattutto dall’allora capo dei servizi di detenzione, il colonnello Brian Gatt. Tutto ciò fa da cornice alla morte del 32enne Mamadou Kamara, avvenuta dopo un tentativo di fuga.
Secondo la ricostruzione, l’uomo sarebbe deceduto per un attacco cardiaco causato da un forte trauma contusivo. Respinto dal Mount Carmel Hospital dove gli agenti dovevano accompagnarlo «per liberarsi di lui» perché dava in escandescenze, secondo il rapporto Mamadou avrebbe aggredito un ufficiale prima di fuggire. Catturato di nuovo, ha aggredito un altro militare. A quel punto, ammanettato, sarebbe stato fatto salire in un furgone dotato di una gabbia di acciaio, per essere trasportato ad un altro centro di cura. Ma chi lo accompagnava, lo avrebbe colpito all’inguine con una ginocchiata, procurandogli un dolore così forte da fermargli il cuore.
L’attuale responsabile dei servizi, il colonnello Mario Schembri, al Times of Malta parla di episodi che riguardano il passato, sottolineando la riduzione dell’organico attuale e l’assenza, tra il personale sotto la sua direzione, dei nomi implicati nelle vicende ricostruite nell’inchiesta.
«Nessuno ne parla mai apertamente, ma tagli di fondi, scarso addestramento, i primi grandi numeri dell’emergenza e l’assenza di controlli adeguati sui soggetti che arrivano, anche potenziali terroristi o criminali nel loro paese, e che spesso si rivoltano durante la detenzione, non hanno messo gli operatori nella possibilità di lavorare sempre con serenità e professionalità – conferma un ex soldato che conosce bene la situazione – così la morte di quel migrante ha riacceso le polemiche sui centri di detenzione. Giusto, ma se ti lanciano urina, arance con dentro lamette da barba, o ti pungono con forchette sporche di sangue per infettarti o ti sputano perché vogliono uscire, non riesci sempre a porgere l’altra guancia».
La pubblicazione del rapporto esplicita ancora una volta la durezza del sistema con cui Malta accoglie i migranti e ha riacceso il dibattito sull’assoluta necessità di gestire con personale specializzato i momenti più delicati del sistema migrazione, i cui limiti sono sempre stati denunciati dalle stesse organizzazioni umanitarie.
In una nota congiunta le associazioni umanitarie maltesi, tra cui Jesuit refugee service, puntano il dito contro chi sapeva e non ha agito: «Abbiamo sempre espresso la nostra preoccupazione per la situazione in Safi e la caserma di Lyster e, nonostante i miglioramenti minimi spesso di tipo estetico, le nostre preoccupazioni restano valide e urgenti più che mai. Il regime di detenzione di Malta resta una macchia indelebile nel quadro del rispetto dei diritti umani».
«Concordiamo con la conclusione principale dell’indagine, che indica la necessità di rivedere il sistema di detenzione», ha detto Jon Hoisaeter, rappresentante dell’Acnur a Malta, che spiega anche come molti problemi non abbiano ancora una soluzione, come la mancanza di adeguato sostegno psicologico per chi arriva. A Malta la detenzione per i migranti arrivati dal mare è la diretta conseguenza di una legge del 1970, che definisce la clandestinità “reato amministrativo”.
Dopo un colloquio per l’identificazione e la formulazione della richiesta di asilo, i migranti vengono accompagnati in queste carceri/caserme in attesa che venga valutata la loro domanda. Ma qui rimangono anche fino a 18 mesi. Secondo i dati ad ottobre di Alto commissariato Onu per i rifugiati di Malta, sono stati 250 i migranti accolti nei centri di detenzione, 960 quelli qui transitati nell’intero 2014 e 885 quelli trasferiti in uno dei sei centri aperti, spesso gestiti da ong o dalla Chiesa, dopo il riconoscimento di una qualche forma di protezione internazionale, l’assegnazione di un documento di viaggio e 4 euro al giorno. Sono somali per il 23%, il 13% è siriano, e poi eritrei, etiopi e nigeriani, soprattutto uomini. Il 47% del totale di chi arriva sull’isola riceve protezione, solo il 5% ottiene lo status di rifugiato e il 22 % viene respinto.
Al momento sono due i centri di detenzione operativi. Quello di Safi, al centro dell’inchiesta, si trova nell’area della caserma del terzo reggimento delle forze armate maltesi. Ad Hal Far, “città dei ratti,” si trova invece la caserma di Lyster Barracks, che ospita il 1° reggimento. Nei periodi di massima emergenza, nell’estate del 2011, anche i tre magazzini di Safi, i magazzini militari, furono trasformati in dormitori con bagni, docce e cucine. Qui, molti degli stessi alloggi dei soldati furono assegnati ai migranti soccorsi in mare. Da allora le cose non sono cambiate. Le notizie di rivolte, fughe, proteste e la morte di un altro migrante, nel 2011, ogni tanto riempiono le cronache maltesi, alimentando l’immagine negativa di queste strutture e di chi è costretto a passarci mesi.
Fonte. Avvenire
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