Ironia della sorte, proprio la vigilia di Natale è stato pubblicato online, sulla rivista Cell, l’articolo scientifico che spiegava come si fosse riusciti a produrre in laboratorio i precursori di spermatozoi e ovociti umani, a partire da cellule della pelle. Ironia della sorte, dicevamo, perché mentre ci si preparava a festeggiare la Nascita per eccellenza si annunciava una svolta importante e attesa da tempo nella ricerca sulle staminali, potenzialmente rivoluzionaria per le future nascite ell’umanità, che fin d’ora interroga la comunità scientifica, la politica e l’opinione pubblica tutta.
Ma andiamo in ordine. Lo sviluppo di linee cellulari staminali embrionali, ottenuto per la prima volta nel 1998, ha avuto da sempre lo scopo di ottenere tutti i tipi di tessuti e cellule del corpo umano, sia a fini terapeutici – sostituire cellule malate del corpo umano con sane e compatibili, prodotte in laboratorio – che, più in generale, conoscitivi. La tecnica messa a punto dal Nobel Yamanaka ha consentito di abbatterne il problema principale: questo tipo di cellule si poteva ottenere solamente distruggendo embrioni umani. Yamanaka invece – lavorando su cellule embrionali, sì, ma di topo – ha messo a punto una procedura per poter ‘ringiovanire’ normali cellule somatiche, cioè adulte, manipolandole fino a farle ‘tornare indietro’ a uno stadio embrionale. Sono le Ips (staminali pluripotenti indotte) e hanno l’indubbio vantaggio di non rendere necessaria la distruzione di embrioni umani per essere prodotte: per questo sono state considerate l’alternativa etica alle precedenti metodiche.
Tutte le altre problematiche chiaramente rimanevano intatte: di embrioni umani non c’è più bisogno, però essendo la produzione delle Ips molto più efficace delle analoghe procedure precedenti sono già emerse questioni che fino a ora si ponevano solo sulla carta, come ad esempio la sintesi in laboratorio di gameti umani. È evidente che la disponibilità di ovociti e spermatozoi creati in vitro apre scenari che potremmo definire da fantascienza: se il primo obiettivo dichiarato è quello di consentire a persone sterili di avere comunque gameti geneticamente propri, prodotti in laboratorio a partire dalle cellule della propria pelle, c’è già chi ha ventilato la possibilità di bambini concepiti da spermatozoi e ovociti derivati dalla stessa persona (maschio), o anche chi ha parlato di figli nati non da persone ma da linee cellulari.
Figli di nessuno, sganciati da qualsiasi tipo di relazione, concepiti letteralmente ‘su ordinazione’. Gli addetti ai lavori si stanno interrogando da tempo sul tema. Solo per citare le ultime pubblicazioni, nello scorso mese di ottobre il Journal of Medical Ethics ha dedicato un intero numero a questo argomento, prospettando situazioni non proprio rassicuranti.
Nel suo articolo introduttivo Robert Sparrow, per esempio, descrive la possibilità di produrre «generazioni multiple di esseri umani in vitro» e la chiama «eugenetica in vitro», definendola così: «La riproduzione deliberata di esseri umani in vitro, unendo spermatozoi e ovociti derivati da differenti linee di cellule staminali per creare un embrione, dal quale derivare nuovi gameti, che a loro volta possono essere usati nella creazione di un ulteriore embrione», il che permetterebbe agli scienziati di «studiare l’ereditarietà dei disordini genetici», oppure «più polemicamente, potrebbe anche funzionare come una potente tecnologia di miglioramento umano consentendo ai ricercatori di usare tutte le tecniche di riproduzione selettiva per produrre individui con un genotipo desiderato». Seguono articoli di commento e contributi vari, pro e contro, che discutono della prospettiva offerta, con le più diverse argomentazioni. C’è per esempio l’articolo di César Gonzales, John Harris e dell’italiano Giuseppe Testa che fra le possibili conseguenze della sintesi di gameti umani in laboratorio commenta: «La liberazione dei ruoli parentali dai vincoli delle generazioni biologiche in vitro consentendo a più persone di essere coinvolte insieme in una genitorialità genetica, offuscando così la distinzione fra la generazione biologica e sociale […] oltre la genitorialità dello stesso sesso, l’applicazione della sintesi in vitro dei gameti […] potrebbe essere una espansione radicale della autonomia riproduttiva che permetta a più di due persone di essere simultaneamente coinvolte nella genitorialità genetica». Gli autori si dilungano nella descrizione di quella che chiamano «genitorialità genetica molteplice», spiegando per esempio come quattro persone potrebbero egualmente contribuire, da un punto di vista genetico, alla nascita di un bambino, essendo al tempo stesso ‘genitori’ e, tecnicamente, ‘nonni’. E concludono: «Per queste ragioni, abbiamo sostenuto che l’ingenuità biotecnologica potrebbe essere incanalata al servizio della sperimentazione sociale, rovesciando cioè il modello attuale per cui la sperimentazione sociale è percepita seguire lentamente il progresso scientifico».
C’è anche chi, come Heidi Mertes, rivisitando il concetto di genitorialità, ricorda con un tocco di nostalgia i vecchi metodi: «L’idea che i patrimoni genetici di una coppia siano mischiati insieme per un nuovo individuo è un pensiero romantico». Né mancano note di colore, come quella di Smajdor e Cutas, che riflettono sulla possibilità di ‘rubare’ cellule della pelle di persone importanti per farne gameti e usarli per averne figli senza il loro consenso – per esempio dal Papa, o dal presidente degli Stati Uniti.
Provocazioni intellettuali, esercizi di logica, dilemmi etici a titolo puramente speculativo, fantasie di bioeticisti sfaccendati: qualcuno potrebbe anche considerare così questi articoli, commettendo però un errore di prospettiva. Si tratta infatti di testi pubblicati in una ben nota rivista specialistica internazionale, di tipo ‘peer reviewed’, che cioè sottopone i testi a revisioni di esperti; una rivista rivolta a «professionisti sanitari e ricercatori in etica medica», edita da uno degli studiosi in materia più accreditati e premiati (e discussi) a livello internazionale, Julian Savulescu, diventata nota al grande pubblico per aver ospitato il famoso articolo sul cosiddetto ‘aborto post-nascita’.
Ma anche senza andar troppo lontano, e fermandoci all’oggi, i fatti già pongono quesiti radicali e decisivi. L’esperimento riuscito sugli esseri umani ha ripetuto la prima parte di quanto già fatto sui topi. Nella seconda parte, dopo aver generato in vitro i precursori dei gameti, li si è trasferiti nei testicoli di maschi e in ovaie di femmine (sempre di topo) osservandone la maturazione, rispettivamente, in spermatozoi e ovociti. Il problema che si pone adesso, quindi, è: come replicare negli esseri umani anche questo secondo passo della procedura? È evidente che adesso si dovrebbero trasferire i gameti sintetici in testicoli e ovaie di esseri umani, per seguirne lo sviluppo. E, di conseguenza, i passi successivi: la fecondazione in vitro utilizzando i gameti maturi e la formazione di embrioni, che, poi, si dovranno poter trasferire in utero per verificarne la capacità di sviluppare gravidanze a termine con nati vivi sani. Uno degli autori dell’articolo, Hanna, ha già dichiarato che lui e i suoi collaboratori non sono «pronti a fare questo tuffo» negli esseri umani, e che stanno prendendo in considerazione l’idea di iniettare piuttosto i gameti umani creati in laboratorio nei testicoli e nelle ovaie di topi, o di altri animali, o di ripetere l’intero esperimento nei primati. «Sto ancora raccogliendo le idee. Vedremo dopo la pubblicazione dell’articolo cosa penserà la comunità scientifica».
Noi proponiamo meglio la domanda, rivolgendola a tutti, non solo agli scienziati: questo esperimento va continuato? E se sì, come?
Di Assuntina Morresi per Avvenire