Mancano due minuti e mezzo alla fine del mondo. Ad aver avvicinato il rischio dell’autodistruzione terrestre è stata l’accelerazione dei cambiamenti climatici e soprattutto, come sempre da oltre settant’anni, la minaccia di una guerra nucleare che scateni un’apocalisse di matrice tutta umana. Per questo, a fine gennaio, un gruppo di scienziati atomici ha spostato in avanti di trenta secondi il simbolico “orologio del giorno del giudizio”, che non è mai stato tanto vicino alla mezzanotte dal 1953, quando l’Unione sovietica testò la bomba all’idrogeno e diede il via alla corsa agli armamenti nucleari con gli Stati Uniti.
Oggi come allora il rischio ha intensificato gli sforzi di chi vuole tornare indietro, disarmare le testate nucleari e riportare la lancetta dei minuti in posizioni più sicure. E ora la comunità internazionale è più ricettiva: per la prima volta dalla fondazione delle Nazioni Unite, i Paesi membri sembrano pronti ad approvare una misura giuridicamente vincolante che metta al bando gli ordigni atomici. Il test della volontà globale si avrà a partire da domani, quando cominciano i lavori di una Conferenza, convocata dall’Assemblea Generale Onu con una risoluzione, che sfoci in un trattato per l’eliminazione delle armi nucleari.
È vero che i Paesi armati nuclearmente e i loro alleati (Italia compresa) si sono opposti alla risoluzione, una realtà che impedirà a un eventuale trattato di avere effetti concreti immediati. Rimane, però, in ogni caso, ben 123 nazioni hanno già dichiarato la loro opposizione politica a questi arsenali, che a quasi 50 anni dalla firma del Trattato di non proliferazione contano ancora 15mila testate, di cui 4.400 pronte all’uso.
Un simile sforzo fu intrapreso nel 1946, quando la prima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituì una Commissione per «affrontare i problemi sollevati dalla scoperta dell’energia nucleare e altre questioni correlate», e presentare proposte «per l’eliminazione delle armi atomiche dagli armamenti nazionali». Ma la rivalità e diffidenza tra le superpotenze dell’epoca ha finora tolto mordente alla commissione. Nel corso dei decenni successivi, la comunità internazionale è riuscita solo a stabilire restrizioni volte a limitare il numero di Paesi che possedevano tali armi, e anche questo con scarso successo.
Il Trattato di non proliferazione, entrato in vigore nel 1970, ha diviso il mondo in due categorie: da una parte i cinque Paesi che già possedevano armi atomiche al 1 gennaio 1968 (Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti), dall’altra quelli che non ne avevano. Questi ultimi accettarono di non acquisire armi nucleari e di sottoporsi a verifiche internazionali. Allo stesso tempo, le cinque potenze si impegnavano ad avviare negoziati in materia di disarmo. I risultati non sono stati incoraggianti. Da allora, altri quattro Paesi hanno acquisito o sviluppato arsenali nucleari: Corea del Nord, India, Israele e Pakistan, mentre le iniziative verso il disarmo languivano.
Per questo, la comunità internazionale è divenuta sempre più preoccupata dei rischi legati al continuo miglioramento tecnologico delle armi nucleari e degli effetti del loro uso accidentale o intenzionale. La frustrazione per la mancanza di progressi concreti è stata la scintilla della decisione di convocare nel 2017 una conferenza, aperta a tutti gli Stati membri. La risoluzione è stata adottata con 123 voti positivi, con 38 contrari e 16 astensioni.
Tra gli Stati che possiedono le armi nucleari la Francia, Israele, Russia, Regno Unito e Stati Uniti hanno votato contro, mentre altri tre (Cina, Pakistan e India) si sono astenuti. La Corea del nord ha votato sì.
Immediatamente, alcuni Stati detentori di armi nucleari hanno lanciato una campagna contro la Conferenza, invitando i loro alleati militari ad astenersi dai negoziati poiché a loro dire il divieto avrà effetti negativi sulla sicurezza internazionale. «Gran parte della comunità mondiale chiede il disarmo nucleare, ma una ristretta schiera di paesi vuole conservare gelosamente il potere distruttivo di tali armi», spiega Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo.
La Conferenza si terrà a New York dal 27 marzo al 31 e poi ancora dal 15 giugno al 7 luglio e potrebbe rivelare che, a 70 anni, il meccanismo multilaterale istituito per negoziare misure di disarmo è finalmente in grado di codificare il no quasi globale al rischio di un olocausto nucleare.
Fonte www.avvenire.it
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