Mons. Bettazzi: Roncalli e Woityla esperti di umanità

Noi salutiamo il Papa come “Vicario” di Cristo. E se è vero che ogni cristiano per il battesimo è inserito in Cristo (e quindi è “vicario” di Cristo), e il sacerdote, per la sua ordinazione e il suo compito, è – come si diceva un tempo – un “altro Cristo”, il Papa è in misura particolare “Vicario di Cristo” in quanto ne rappresenta e ne continua il compito di grande Profeta, grande Sacerdote, grande Pastore. Assurto a un compito immenso, il Papa resta uomo, con tutte le caratteristiche e i limiti di un’umanità che, pur al servizio dell’umanità perfetta di un Dio che si è fatto uomo, rimane un’umanità imperfetta. Il grande insegnamento che ci ha dato Papa Benedetto con le sue dimissioni è stata la coscienza dei propri limiti, derivata dall’età e dalla situazione concreta, che gli ha fatto trasmettere il “servizio” (ministero) a cui arrivava a sentirsi inadeguato, al nuovo “servitore” che lo Spirito avrebbe designato servendosi dei cardinali. Ed è così che a suo tempo i cardinali, trovatisi a designare il successore di Papa Pio XII, avevano nominato il cardinale Roncalli come “Papa di transizione” che preparasse il papato all’arcivescovo di Milano, il non ancora cardinale monsignor Montini. Non ebbi modo di incontrare Giovanni perché, accordatosi col mio arcivescovo, il cardinale Lercaro, sulla sostituzione del vescovo ausiliare di Bologna, aveva già firmato la nomina di mons. Baroni a vescovo di Albenga – il che permise ai cardinali di renderla pubblica – ma non aveva firmato la mia, e dovetti attendere la conferma di Paolo VI.

Avevo incontrato il nunzio Roncalli nel 1951 a Parigi, dove m’ero recato per esercitarmi un po’ nel francese, in una visita, suggeritami dal mio arcivescovo di allora (il cardinale Nasalli Rocca di Corneliano). Monsignor Roncalli mi aveva intrattenuto parlando del più e del meno (i francesi dicevano che “era un gran diplomatico”, perché era capace di parlare per due ore… senza dire niente!) e comunicandomi che una dei suoi due hobby, accanto a quello dei libri antichi, era l’interessamento alle visite pastorali di san Carlo Borromeo nella diocesi di Bergamo, dove – riflettei successivamente – portava il Concilio di Trento; e Roncalli si rendeva conto di quanto fosse importante un Concilio ecumenico per la vita della Chiesa. Va detto che anche l’importanza del Concilio Vaticano II emerse nel suo svolgersi. I documenti preparati riassumevano più o meno quanto si era già detto o fatto; e fu l’assemblea a sollecitare un rinnovamento che guardasse l’avvenire, pur partendo dal passato; e Papa Giovanni ne confermò la volontà. Avremmo voluto che il Concilio lo proclamasse Santo “per acclamazione”, e furono diversi gli interventi e le iniziative in questo senso. Ma Paolo VI, che veniva sollecitato anche perché promuovesse la beatificazione di Pio XII, preferì avviare per ambedue il processo normale di beatificazione. Lo stemma scelto da Papa Roncalli quando era diventato vescovo si rifaceva al motto del cardinale Baronio “obbedientia e pax”.

E aveva sempre accettato tutto per obbedienza. Mi disse una nipote del famoso padre Lombardi – il “microfono di Dio” nel dopoguerra – che questi, recatosi da Papa Giovanni per suggerirgli le innovazioni da portare nella Chiesa, si sentì rispondere: “Ma lei crede che sia qui per governare la Chiesa? Io sono qui per vedere cosa fa lo Spirito Santo”. E la pace fu la seconda grande transizione indotta da Giovanni XXIII. L’essere stato determinante per bloccare lo scontro tra Usa e Urss nella “crisi di Cuba” del 1962 gli suggerì di scrivere la “Pacem in terris”, un’Enciclica sulla pace, rivolta “a tutti gli uomini di buona volontà”. Questo rivolgersi a tutta l’umanità anche al di fuori dei limiti della Chiesa confermava l’invito ai cristiani a non rinchiudersi in se stessi, ma a sentirsi lievito e fermento entro un’umanità in cammino verso il Regno di Dio.

Quest’ultimo aspetto fu da me particolarmente sentito da quando dall’alto mi si propose di assumermi responsabilità (prima nazionale, poi internazionale) all’interno di Pax Christi, Movimento cattolico internazionale per la pace. E questo ha segnato anche il mio rapporto con Papa Giovanni Paolo II, venuto dal mondo dominato dal comunismo. Anche il mio primo incontro, al termine di un’udienza pubblica in cui il segretario italiano fece notare che ero “un vescovo noto in Italia” (aveva fatto clamore lo scambio di lettere con l’on. Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano), e il Papa rispose, incrociando le braccia e con atteggiamento di riprovazione, che “è noto in tutto il mondo!”. Volle anche che lo incontrassi a Castel Gandolfo insieme all’allora presidente italiano di giustizia e pace per rammaricarsi che esprimessimo più critiche verso il mondo occidentale – che era quello in cui vivevamo – che non verso quello comunista, prevedendo – lui che “lo conosceva dal di dentro” – che il comunismo non sarebbe finito se non con una guerra! Ed invece è caduto senza una guerra, grazie a Dio, ma anche grazie al Papa polacco, che ha saputo in vari modi far crescere e difendere l’aspirazione alla libertà al di dentro di quel mondo. Devo anche aggiungere che Giovanni Paolo II accettò di venire ad Ivrea per una delle visite pastorali che faceva il giorno di san Giuseppe in luoghi tipici del lavoro. E venne il 19 marzo 1990 per il mondo dell’informatica (l’Olivetti) a Ivrea, a cui aggiunsi quello dell’automobile (la Lancia) di Chivasso, e la Messa del 19 all’Abbazia di san Benigno Canavese (l’agricoltura e il terziario). Il Papa fu molto soddisfatto della visita, tanto da ricordarmelo due mesi dopo a Roma, alla beatificazione di Pier Giorgio Frassati. Sono due Papi che hanno dato tanto alla Chiesa e al mondo. Li ho ammirati per la loro pietà e la loro umanità. Ora li prego per la Chiesa, per il mondo, e anche per me. di Mons. Luigi Bettazzi *

* La fonte dell’articolo è tratta da: SIR

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