Negli anni del suo servizio alla Santa Sede, ricorda qualche particolare incontro con Giovanni Paolo II? Giovanni Paolo II è stato un uomo di preghiera e di dialogo. Quando visitava una parrocchia o un Istituto religioso, cercava subito la cappella del Santissimo Sacramento e lì sostava finché il segretario non lo invitava a proseguire il programma. Inoltre, sapeva mettersi in ascolto di tutti, un ascolto “attivo” basato sull’empatia e sull’accettazione. Sapeva creare rapporti positivi, caratterizzati da un clima in cui una persona poteva sentirsi compresa. In questo modo gli era possibile stabilire con l’altro rapporti di riconoscimento, rispetto e apprendimento reciproco, pur consapevole del compito affidatogli da Cristo come Pastore della Chiesa universale.
Il Pontificato di Giovanni Paolo II ha dato un notevole impulso al dialogo ecumenico. Nell’Enciclica “Ut Unum Sint” dichiarava: “non si tratta di modificare il deposito della fede, di cambiare il significato dei dogmi, di eliminare da essi delle parole essenziali, di adattare la verità ai gusti di un’epoca, di cancellare certi articoli del Credo con il falso pretesto che essi non sono più compresi oggi. L’unità voluta da Dio può realizzarsi soltanto nella comune adesione all’integrità del contenuto della fede rivelata. In materia di fede, il compromesso è in contraddizione con Dio che è Verità. Nel Corpo di Cristo, il quale è “via, verità e vita”
(Gv 14,6), chi potrebbe ritenere legittima una riconciliazione attuata a prezzo della verità?”. Questa eredità è ancora viva nella Chiesa? L’aspirazione della Chiesa a essere “una” ha sempre accompagnato il Pontificato di Giovanni Paolo II che con gesti concreti, incontri, viaggi ed Encicliche, ha dato un’impennata al cammino ecumenico delle Chiese. Il gesto più coraggioso, senza alcun dubbio, è contenuto nell’Enciclica dedicata da Giovanni Paolo II all’impegno ecumenico, “Ut unum sint” del 1995. Così si legge al n. 95: “Quale Vescovo di Roma … sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”. Il 12 marzo 2000, durante l’omelia nella celebrazione della “Giornata del perdono”, Giovanni Paolo II così si esprimeva: “Chiediamo perdono per le divisioni che sono intervenute tra i cristiani, per l’uso della violenza che alcuni di essi hanno fatto nel servizio alla verità, e per gli atteggiamenti di diffidenza e di ostilità assunti talora nei confronti dei seguaci di altre religioni. Confessiamo, a maggior ragione, le nostre responsabilità di cristiani per i mali di oggi. Dinanzi all’ateismo, all’indifferenza religiosa, al secolarismo, al relativismo etico, alle violazioni del diritto alla vita, al disinteresse verso la povertà di molti Paesi, non possiamo non chiederci quali sono le nostre responsabilità”. L’apertura reciproca al dialogo consoliderà le Chiese nella comprensione che “l’unità voluta da Dio può realizzarsi soltanto nella comune adesione all’integrità del contenuto della fede rivelata” e aprirà le Chiese al dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, accettandone le sfide e lasciandosi interpellare. Nel dialogo con l’esterno le Chiese potranno purificarsi al loro interno. Questa è l’eredità che il Beato Pontefice ci ha lasciato ed è ancora viva nella Chiesa.Con gli Ebrei – definiti dallo stesso Pontefice i fratelli maggiori -, il dialogo è diventato più intenso e fruttuoso. Papa Woityla, fu il primo Papa ad entrare nella Sinagoga di Roma. Diversi osservatori dell’epoca, commentando l’evento dissero: “anche se la distanza tra il Vaticano e la Sinagoga è breve, le loro strade si sono incontrate raramente. Oggi, inizia una nuova pagina di amicizia tra i cristiani e gli ebrei”. Con quel gesto di accoglienza e apertura, si sono spalancate nuove vie di incontro ed amicizia. Questo cammino di riconciliazione è un altro segno importante lasciato da Giovanni Paolo II agli uomini di buona volontà? Il dialogo intrapreso da Giovanni Paolo II con gli Ebrei, nostri “fratelli maggiori”, come Lui amava chiamarli, è stato non solo un cammino di riconciliazione, ma anche un principio di comunione e di partecipazione alla stessa volontà di salvezza che Dio ha rivelato a tutti gli uomini di buona volontà. Durante il primo incontro con la comunità ebraica nel 1979, Giovanni Paolo II disse che si sarebbe impegnato per un dialogo fruttuoso tra ebrei e cattolici e che il suo auspicio era di una comprensione reciproca per un confronto davvero costruttivo tra le parti. Difatti, il suo è stato un dialogo aperto e disponibile non solo verso l’altro e quello che diceva, ma anche verso se stesso, per ascoltare le proprie reazioni, per essere consapevole dei limiti del proprio punto di vista e per accettare il non sapere e la difficoltà di non capire. Giovanni Paolo II aveva un modo amichevole di affrontare le questioni nel dialogo con gli ebrei. Dovunque andava, incontrava rappresentanti della locale comunità israelita, in Polonia aveva amici ebrei, l’appartamento dove visse con il padre era di ebrei. Perfino alcuni suoi professori all’università polacca che frequentò erano ebrei. Aveva sviluppato una conoscenza tutt’altro che superficiale dell’appartenenza ebraica. Credo che il Beato Giovanni Paolo II sarà ricordato dalla comunità ebraica mondiale come un Pontefice coraggioso e innovatore che più di ogni altro Papa nella storia si è adoperato per sanare le ferite del passato e per gettare ponti per il futuro tra cristiani ed ebrei.
Il Santo Padre Benedetto XVI, Le ha affidato la cura pastorale della Diocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo. E’ noto il legame tra Papa Woityla e il Santo delle stimmate, padre Pio. E’ ancora vivo nella gente il legame tra i due santi? La venuta di Giovanni Paolo II a San Giovanni Rotondo, nel 1987, ha lasciato una traccia profonda di una giornata ricca di emozioni e di ricordi ancora vivi nel cuore della Chiesa garganica.
Tra le tante testimonianze dell’amicizia tra Padre Pio e Giovanni Paolo II, ne ricorda qualcuna in particolare? L’amicizia tra Karol Woityla e Padre Pio da Pietrelcina si è svelata già dal 1948, quando l’allora giovane don Karol ebbe il suo «primo incontro» con il Frate stigmatizzato del Gargano e ad un amico, il card. Andrea Deskur, rivelava: “L’unica richiesta che ho fatto: quale stigmata gli faceva più male. Ero convinto che era quella del cuore. Padre Pio mi ha sorpreso molto dicendo: “No, più male mi fa quella della spalla di cui nessuno sa e che non è neppure curata”…». Nel novembre 1962, da vescovo Woityla fece recapitare a Padre Pio due lettere con cui chiedeva preghiere per la guarigione di una «madre di quattro figlie» e successivamente ringraziava per la grazia ricevuta. Successivamente, nel 1974, il card. Wojtyla compiva una visita a San Giovanni Rotondo in occasione dell’anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Della sua visita da Papa nel 1987 abbiamo già detto. Giovanni Paolo II, sull’esempio di Padre Pio, ha dedicato molto tempo alla cura e al sostegno degli ammalati, i quali purtroppo nella società odierna sono considerati “oggetti da scartare”. Concorda? Giovanni Paolo II è stato il Papa “esperto” della sofferenza dell’uomo. È stato il Pastore che ha vissuto la verità che “l’uomo non cessa di essere grande neppure nella sua debolezza. Non abbiate paura di essere testimoni della dignità di ogni persona umana, dal momento del concepimento sino alla morte.” (cfr. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Ed. Mondadori, Iª ediz. Ottobre 1994, p. 11). Una idea-guida ha illuminato tutta la sua vita, da sempre, perché da sempre ha interrogato se stesso su: “Chi è l’uomo, se il Verbo assume la natura umana? Chi deve essere quest’uomo, se il Figlio di Dio paga il prezzo supremo per la sua dignità?” (idem p. 215). Fece notizia, e provocò piacevole sorpresa, la sua prima uscita a poche ore dalla elezione a Sommo Pontefice – il pomeriggio del 17 ottobre 1978 – con destinazione il Policlinico “Gemelli” di Roma, per fare visita all’amico Arcivescovo Andrea Deskur, in quel momento gravemente ammalato. Ma più ancora suonarono particolarmente interessanti, le parole improvvisate dette ai malati del vicino reparto che volle incontrare: cioè di volere “…appoggiare il mio ministero papale soprattutto su tutti quelli che soffrono e che alla sofferenza, alla passione, ai dolori uniscono la preghiera… carissimi fratelli e sorelle, vorrei affidarmi alle vostre preghiere… (perché voi siete) molto potenti; molto potenti così come è potente Gesù Cristo Crocifisso.” (cfr. Osservatore Romano del 19 ottobre 1978, p. 1, 2). Affidamento rinnovato nel 16° anniversario della sua Elezione alla Sede di Pietro. Chi vive quotidianamente il servizio all’uomo malato, intuisce che quelle parole dovevano avere radici ben più profonde di un semplice sentimento di compassione. Il “Papa venuto da lontano”, forse veniva anche da una lunga e familiare convivenza col mondo che soffre.
Eccellenza, siano giunti alla fine della nostra intervista. In previsione della canonizzazione di Giovanni Paolo II, vuole lanciare un messaggio di speranza? In previsione della prossima canonizzazione del Beato Giovanni Paolo II, raccolgo da Papa Francesco un messaggio di speranza, il quale, scrivendo ai giovani di tutto il mondo nel predetto Messaggio per la prossima Gmg del 13 aprile 2014, dice: “Nel prossimo mese di aprile ricorre anche il trentesimo anniversario della consegna ai giovani della Croce del Giubileo della Redenzione. Proprio a partire da quell’atto simbolico di Giovanni Paolo II iniziò il grande pellegrinaggio giovanile che da allora continua ad attraversare i cinque continenti. Molti ricordano le parole con cui il Papa, la domenica di Pasqua del 1984, accompagnò il suo gesto: «Carissimi giovani, al termine dell’Anno Santo affido a voi il segno stesso di quest’Anno Giubilare: la Croce di Cristo! Portatela nel mondo, come segno dell’amore del Signore Gesù per l’umanità, ed annunciate a tutti che solo in Cristo morto e risorto c’è salvezza e redenzione». Adesso che diventa santo per ciascuno di noi … possiamo dire che diventa santo uno di noi! a cura di Don Salvatore Lazzara
* S.E. Mons. Michele Castoro è nato ad Altamura, diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e provincia di Bari, il 14 gennaio 1952. Dopo le scuole medie ed il ginnasio frequentate nel Seminario Arcivescovile di Bari, è stato inviato a Roma dove ha compiuto gli studi liceali nel Seminario Romano Minore. Passato al Seminario Romano Maggiore, ha seguito i corsi filosofici e teologici nella Pontificia Università Lateranense e nella Pontificia Università Gregoriana, dove ha conseguito la Licenza in Teologia Fondamentale. In seguito ha ottenuto la Laurea in Storia e Filosofia presso l’Università degli Studi di Bari. È stato ordinato sacerdote ad Altamura il 6 agosto 1977, per la diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti. Assunto al servizio della Santa Sede presso la Congregazione per i Vescovi nel 1985, ne è divenuto Capo Ufficio nel 1996. Ha svolto inoltre il servizio di Archivista e poi Sostituto della Segreteria del Collegio Cardinalizio. Eletto Vescovo di Oria il 14 maggio 2005, è stato consacrato il 25 giugno dello stesso anno. Il 15 luglio 2009 è stato promosso alla sede arcivescovile di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo e nominato Direttore Generale della “Associazione Internazionale dei Gruppi di Preghiera” di Padre Pio. Ha fatto l’ingresso nella nuova diocesi il 19 settembre 2009. Dal 1 gennaio 2010 è Presidente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione “Casa Sollievo della Sofferenza”. Attualmente è Segretario della Conferenza Episcopale Pugliese e Membro della Commissione Episcopale della C.E.I. per l’ecumenismo e il dialogo.
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