Erbil (Kurdistan) – Nel gennaio del 2010, quando all’età di 42 anni fu chiamato a occuparsi dell’arcidiocesi caldea di Mosul (Iraq), monsignor Emil Shimoun Nona divenne il più giovane arcivescovo della Chiesa cattolica. Da allora, un’onda di violenze sembra aver impresso un’accelerazione incontrollata alla vita di una comunità cristiana presente da millenni. Dai 35 mila cristiani dell’arcidiocesi nel 2003 (anno dell’invasione americana) ai 3 mila dei primi del 2014 fino allo zero di adesso, dopo l’invasione dell’Isis dalla Siria. Dalle violenze sporadiche (il sacerdote Ragheed Ghanni ucciso sulla porta della Chiesa nel 2007; l’arcivescovo Paulos Faraj Rahho
, precedessore di monsignor Nona, rapito e morto in prigionia nel 2008) alla casa vescovile di Mosul trasformata nel quartier generale delle milizie islamiste.E quel che forse è peggio, l’esilio in Kurdistan che si prolunga oltre ogni previsione, rende sempre più lontana e complicata la prospettiva del ritorno alle case e alla vita di un tempo. “E’ stato calcolato”, dice l’arcivescovo, “che almeno il 25% delle famiglie oggi esuli in Kurdistan non ha intenzione di rientrare a Mosul e nei villaggi della Piana di Niniveh, ma io temo che la realtà sia ancora più triste. D’altra parte, la crisi generata dall’Isis ha fatto emergere un cumulo di problemi nel rapporto con i musulmani che hanno radici nella storia, non sono certo nati nel 2003. Noi cristiani, nella vita quotidiana, siamo sempre stati trattati male. E ora i primi ad approfittare della nostra difficoltà, a prendersi le cose che abbiamo dovuto lasciare per salvarci dall’Isis, sono proprio i nostri vicini di casa, i conoscenti, persino gli amici musulmani. Come arcivescovo conoscevo un sacco di persone a Mosul, anche di alto livello culturale e sociale. In otto mesi ho ricevuto in tutto un solo Sms di una persona che voleva sapere come stavo. Quindi, come si può pretendere che la nostra gente torni, in futuro, a vivere in un ambiente così insicuro, per non dire infido?”.
L’estinzione della presenza cristiana in Iraq, a lungo paventata, oggi può diventare realtà?
“Di certo siamo a un tornante decisivo della storia. L’altro giorno, il parroco di un villaggio alle porte di Mosul mi diceva che delle 700 famiglie cristiane della sua parrocchia, già 150 hanno lasciato l’Iraq e sono andate all’estero. Ogni giorno ci sono famiglie che partono, ogni giorno. E molte delle altre restano solo perché non hanno i mezzi o i contatti per partire. D’altra parte è una situazione che pare senza uscita: i giovani non vedono prospettive per il futuro; gli anziani subiscono una condizione di pericolo e persecuzione cui non riescono a sottrarsi. La speranza sopravvive proprio perché ci sono ancora persone che non li lasciano soli, che si occupano di loro e fanno sentire che c’è ancora qualcuno che gli vuole bene”.
Come vede l’Iraq di domani?
“Difficile fare previsioni. Certo la “questione cristiana” è importante anche per il quadro generale del Paese. I cristiani, in Iraq, sono sempre stati una comunità piccola ma tenace e molto presente nella vita dell’Iraq, a tutti i livelli: politico, culturale, economico. Abbiamo sempre avuto una funzione equilibratrice nell’antico dissidio tra musulmani sciiti e sunniti. Che accadrà se noi non ci saremo più? In ogni caso, non si tratta solo di esserci ancora o non esserci più. In quali condizioni sarà la comunità cristiana dell’Iraq, domani? Che ruolo potrà giocare? Avrà ancora un ruolo? Queste sono le risposte decisive”.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Famiglia Cristiana
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