Monsignor Derio Olivero, Vescovo di Pinerolo, e la sua lotta al Covid-19 – Nel suo racconto si respira la vita vera, profonda, nuda, quella che senti soprattutto quando ti accorgi che la morte ti cammina accanto. Ma ancora più forte, più concreta è stata la consapevolezza della presenza di Dio e della comunità, più potente è stato il sostegno della preghiera, invocazione di aiuto e insieme abbraccio che regala forza.
«Ero certo di morire – spiega Olivero dal reparto di ospedale dove si trova tuttora in convalescenza – e la morte fa verità, davanti a lei sei assolutamente vero. È un’esperienza in cui sembra che tutti evapori. Restano due cose: la fiducia in Dio e le relazioni costruite seriamente. Io, anche se sono profondamente credente, ho paura di morire, ma sin dall’inizio, da quando, prima di intubarmi, il dottore mi ha detto che la situazione era seria, ho provato una pace incredibile. Non mi sono mai sentito agitato e spaventato. E questo credo sia merito delle relazioni».
La conferma è arrivata dopo un po’ di giorni, quando a monsignor Olivero, 59 anni appena compiuti, è stato ridato il cellulare.
«Ho visto cosa non hanno fatto in termini di preghiera e iniziative per pensarmi, davvero di tutto. A Pinerolo, dove sono stati più che splendidi come a Fossano la mia diocesi di provenienza. Addirittura hanno organizzato gesti in gemellaggio. Bellissimo. A pensarlo mi emoziono ancora. Ma un altro regalo meraviglioso che mi porterò a casa è la preghiera delle comunità valdese, ortodossa e musulmana. Ecumenismo e dialogo veri». L’elenco della gratitudine, come una corona di misteri gloriosi si allunga ancora. Un altro enorme grazie, il presule piemontese lo vuole dire a chi l’ha preso in cura. «Ho visto da vicino l’efficienza, l’eccellenza dell’ospedale di Pinerolo, esempio della buona sanità pubblica – sottolinea –. Una competenza e una capacità di lavoro dei medici (e degli infermieri, di tutto il personale) davvero encomiabili, accompagnate da una grandissima gentilezza nei rapporti, nelle relazioni, in una situazione molto molto complicata».A illuminare ancora di più il buio della malattia, anche un episodio raccontato con commozione mista a pudore. «C’è stata una mezza giornata in cui ho vissuto un’esperienza che non dimenticherò mai, e che è un dono, una grazia. Era come se Dio fosse proprio lì, fisicamente, tanto da poterlo toccare. Una cosa indescrivibile ».
La si potrebbe definire il culmine, meraviglioso e insieme misterioso, di una sofferenza interamente vissuta nella fede. «Quando l’ambulanza è venuta a prendermi in vescovado per portarmi in ospedale, ho telefonato al cancelliere e gli ho chiesto di impartirmi l’unzione degli infermi. E sapesse quante volte, nei giorni successivi, in cui sentivo che stavo morendo, mi sono detto: io ci credo a quel sacramento, e quindi posso andare in pace».
Il percorso della malattia del vescovo di Pinerolo ha seguito, in forma molto drammatica, le tappe di un itinerario che purtroppo abbiamo imparato a conoscere. L’8 marzo scorso l’ultima Messa pubblica celebrata in Duomo, poi i giorni di febbre alta, il ricovero in ospedale, l’intubazione e il breve miglioramento, seguito però da un aggravarsi delle condizioni respiratorie tanto da rendere necessaria la tracheotomia. Infine la lenta ripresa che dovrebbe consentire al pastore di Pinerolo di rientrare a casa la settimana prossima.
«Ripeto, io non potevo vederla ma sentivo una catena che mi teneva su e in pace. Penso che insieme alla bravura dei dottori, la preghiera un po’ di miracolo l’abbia strappato». Fiducia in Dio e rapporti umani, il binomio, meglio il legame, che ha sostenuto Olivero nella prova più dura che possa capitare a una persona umana. «Ironia della sorte, quest’anno la mia Lettera pastorale è sulle relazioni. “Vuoi un caffè?” il titolo ma lo slogan serio è “Io siamo”, che significa impegnarsi a ritrovare il valore della comunità in risposta all’individualismo, cancro della società moderna. Io esisto insieme, sono ciò che ho incontrato. Non avrei potuto avere un altro modo per sentire meglio la potenza delle relazioni, di questo iter».
Ma nella malattia c’è stata un altra coincidenza, che si può leggere nella logica della fede. «La parte peggiore l’ho vissuta nella Settimana Santa. Il Venerdì Santo ero praticamente morto e mi hanno tracheotomizzato, il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua sono stato un po’ di qua e un po’ di là, il lunedì è arrivata la ripresa».
Ora si tratta di capire se quest’esperienza cambierà il modo di vivere il suo essere vescovo, il servizio di guida della comunità. «Nell’anno in corso avevo dovuto svolgere delle relazioni sulla figura dell’adulto, sull’adultità, che significa aver provato i limiti della vita e crederci ancora. L’adulto è colui che ha la missione di dar fiducia ai “nuovi” che vengono al mondo. Io in questo periodo ho provato il limite, quello estremo, dell’esistenza, e sono vivo. Credo come pastore di dover ancora di più portare fiducia e speranza alla gente. Oggi il bravo vescovo deve soprattutto stare davanti e provare ad aprire vie nuove per una nuova Chiesa. Come fa davvero papa Francesco».
Forse aprire scenari differenti vuol dire anche valorizzare, trarre il meglio dall’esperienza di Chiesa vissuta in questo tempo di isolamento e digiuno eucaristico forzato. «Io credo che l’attuale, brutta situazione sia un kairós, che ha già prodotto cambiamenti e portato anche dei frutti positivi. Non avevo mai visto tanta gente pregare in famiglia come adesso, malgrado, purtroppo, non ci siano le Messe con i fedeli. Spesso nelle parrocchie abbiamo l’Eucaristia e niente o poco altro. Invece, anche grazie alla fantasia di alcuni preti, sta nascendo un cristianesimo che vive di più la dimensione domestica, familiare. Sarà la nostra salvezza».
Fonte avvenire.it – Riccardo Maccioni
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