Categorie: Testimonium

Mons. Oscar Romero futuro beato. ‘Ecco la verità storica su un pastore fedele’

«Romero è il primo grande testimone della Chiesa del Concilio. Il riconoscimento sancito dal Papa del suo martirio in odio della fede è dirimente, non lascia più spazio né a riserve sulla natura del suo agire, né a interpretazioni strumentali della sua figura». Lo afferma monsignor Vincenzo Paglia, postulatore della causa dal 1996, in questa intervista esclusiva ad «Avvenire» che sarà pubblicata nell’edizione di mercoledì 4.

Papa Francesco ha autorizzato oggi, martedì 3 febbraio, la promulgazione del decreto di beatificazione di Romero. Sono passati ventidue anni dall’inizio della causa. Perché è trascorso così tanto tempo?

«La figura del vescovo Romero divenne da subito oggetto di strumentalizzazioni politiche. Una simile situazione comportò pertanto la necessità di esaminare contestualmente la condotta e soprattutto gli scritti di Romero per arrivare alla verità storica della sua azione nella difficile e controversa situazione salvadoregna del suo tempo. Il percorso, quindi, è stato segnato da soste, sospensioni e altre misure dilatorie».

Ci sono state riserve di carattere dottrinale?
«Dopo l’inizio della fase romana del processo, nel 1998 la Congregazione per la dottrina della fede prese l’esame del caso».

E quali sono stati i risultati?
«Il risultato finale dello studio delle testimonianze processuali, dei documenti e delle oltre cinquantamila carte dell’archivio di Romero è che il suo pensiero teologico era “uguale a quello di Paolo VI definito nell’esortazione Evangelii nuntiandi”, come rispose egli stesso nel ’78 a chi gli chiedeva se appoggiasse la teologia della liberazione. E che, in sostanza, in un contesto storico caratterizzato da estrema polarizzazione e da cruenta lotta politica, si scambiò per connivenza con l’ideologia marxista la difesa concreta dei poveri, che Romero sosteneva non per vicinanza alle idee socialiste ma per fedeltà alla Tradizione, la quale da sempre riconosce la predilezione dei poveri come scelta stessa di Dio».

Come si è arrivati a stabilire che la sua uccisione è stata in odio della fede?


«Si è dimostrato che l’odio profondo della repressione oligarchica che armò la mano dell’assassino di Romero (“ex parte persecutoris”) era motivato solo dall’amore mostrato dal vescovo per la giustizia e la difesa dei poveri, degli indifesi e degli oppressi. Un odio che si riversò barbaramente anche su altri membri della Chiesa. In definitiva Romero pagava non una partecipazione politica in un contesto violento di guerra civile, ma una opzione totalmente evangelica. Si è inoltre dimostrato (“ex parte Servi Dei”) che Romero è stato un vero pastore che ha dato la vita per il suo gregge e subì la morte per coerenza con la fede, con la dottrina e il magistero della Chiesa. La sua disposizione a dare la vita si è compiuta all’altare della mensa eucaristica. E questa immagine finale di Romero è quella che lo qualifica. San Giovanni Paolo II affermò a riguardo: “Lo hanno ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e divino… mentre esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’Eucaristia”».

Dopo l’icona del Romero “militante” non c’è però il rischio di farne ora una solo “spirituale”?
«Il riconoscimento sancito dal Papa del suo martirio in odio della fede è dirimente, non lascia più spazio né a riserve sulla natura del suo agire, né a interpretazioni strumentali della sua figura. Un ritratto di Romero aderente alla realtà è quello che mi ha lasciato in una testimonianza scritta Gustavo Gutierrez: “Monsignor Romero è stato anzitutto un pastore, questa è la prima condizione che appariva fin dal primo contatto con lui. È stato un testimone autentico della verità evangelica, con una formazione spirituale e teologica che possiamo dire tradizionale. Non era una persona che stava alla mercé delle opinioni altrui, non era manipolabile. La sua fede lo portava a discernere i punti di vista e le realtà che gli si presentavano. È stato un uomo libero. La ragione di questa libertà stava nel suo senso di Dio, che gli permise di conservare la serenità anche davanti alla morte”».

Si parlò allora di una “conversione” di Romero: da prete conservatore a rivoluzionario…
«Subito dopo la sua elezione ad arcivescovo di San Salvador, Romero assistette a un’escalation della violenza: quella repressiva del governo militare e quella eversiva dei gruppi di guerriglia rivoluzionaria. I suoi preti vengono trucidati, torturati. Di fronte a questo clima di violenza e di persecuzione della Chiesa, Romero reagisce da vescovo e chiede con forza giustizia alle autorità, il rispetto per i diritti umani e comincia a denunciare pubblicamente le atrocità e le ingiustizie. Protegge gli oppressi, il clero e i fedeli perseguitati, e lo fa proprio in forza degli insegnamenti dei Padri della Chiesa e attraverso il magistero conciliare e pontificio. Pochi mesi prima di morire, quando un giornalista venezuelano gli rifà l’ennesima domanda sulla sua conversione da “prete in talare” a pastore militante sbilanciato in politica, risponde: “La mia unica conversione è a Cristo, e lungo tutta la mia vita”. Certamente l’assassinio di padre Rutilio Grande, suo amico fraterno, determinò in lui uno spirito di “fortaleza”, come la chiamò egli stesso. Una coscienza di dover agire in quel momento con più coraggio come “defensor civitatis”, richiamando all’amore evangelico nella vita sociale».

Chi era questo prete?
«Era un gesuita. Ma non apparteneva al gruppo dei gesuiti intellettuali, accademici, che teorizzavano il cambiamento culturale e politico del Paese. Padre Rutilio aveva scelto la periferia, viveva in mezzo ai campesinos. Romero sottolineava particolarmente la motivazione d’amore che aveva guidato Rutilio nel suo lavoro pastorale: “L’amore vero è quello che porta Rutilio Grande alla morte mentre dà la mano a due contadini. Così ama la Chiesa. Non per ispirazione rivoluzionaria ma per ispirazione d’amore”. Quello che Romero fece proprio di quel sacerdote missionario è la conversione pastorale conforme al paragrafo 28 della “Evangelii nuntiandi”. “Finché non si vive una conversione del cuore tutto sarà debole, rivoluzionario, passeggero, violento. Non cristiano” aveva detto nell’omelia al funerale del gesuita. Quando incontrai Papa Francesco, poco dopo la sua elezione, egli mi sollecitò subito ad andare avanti con la causa di Romero, anzi mi disse di correre… e mi parlò anche dell’importanza di padre Rutilio Grande, che egli aveva conosciuto, attraverso il quale si comprende a fondo l’azione pastorale di Romero».

Un’agire pastorale che spesso però incontrava opposizioni da parte del nunzio e di altri nell’episcopato…
«Come scrive Romero nel diario, riferendosi ad alcuni confratelli, “la fedeltà a questo popolo così paziente che essi non riescono a comprendere è tra le cose essenziali”, e sulla quale egli non poteva cedere. Il rapporto con il Papa costituiva un riferimento essenziale e decisivo per identificare le sue responsabilità e modellare la sua fisionomia di vescovo sulle esigenze del Vangelo, del Concilio e del magistero. Fin dal primo incontro con Paolo VI egli ricevette sostegno a proseguire con coraggio nella sua difficile missione, ostacolata da incomprensioni, contrasti e calunnie verso la sua persona. Venti giorni prima della morte aveva detto in una predica: “Per me il segreto della verità e dell’efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il Papa”. Anche con l’espressione di questa fedeltà ha vissuto pienamente il suo motto episcopale: “Sentire cum ecclesia”».

Che cosa caratterizza il caso di Romero rispetto ai tanti martiri del Novecento?
«La Chiesa ha canonizzato molti martiri dei regimi totalitari del comunismo e del nazismo. La vicenda martiriale di Romero s’inserisce nelle persecuzioni della Chiesa dell’America latina negli anni Settanta-Ottanta. Romero, come altri sacerdoti, è stato ucciso da un sistema oligarchico formato da persone che si professavano cattoliche e che vedevano in lui un nemico dell’ordine sociale occidentale e di quella che già Pio XI, nella “Quadrigesimo anno”, chiama “dittatura economica”. È stato il primo esempio noto in questo senso».

Qual è oggi l’opportunità di questa beatificazione? Cosa può significare per il tempo presente e futuro della Chiesa?
«Mi ha sempre impressionato il fatto che Romero pur essendo arcivescovo, primate della Chiesa salvadoregna, preferì abitare non nella residenza episcopale ma nella casa del portiere di un ospedaletto. Penso che la sua beatificazione, se dopo tante vicende, trova proprio in questo tempo ecclesiale il suo compimento, ciò risponda a un disegno provvidenziale. Romero è un vescovo che con spirito di fortezza ha messo in pratica le beatitudini evangeliche. Ha perseguito la giustizia, la riconciliazione e la pace sociale. Ha sentito l’urgenza di annunciare la Buona notizia e proclamare ogni giorno la Parola di Dio. Ha amato una Chiesa povera per i poveri, viveva con loro, pativa con loro. Ha servito Cristo nella gente del suo popolo. La sua fama di uomo di Dio oltrepassa i confini della stessa cattolicità. È il primo grande testimone della Chiesa del Concilio Vaticano II. Un esempio di Chiesa in uscita. In questo senso credo rappresenti una figura emblematica per la Chiesa di oggi e ne illumini il ministero presente e futuro».

Il Papa ha detto che non celebrerà la sua beatificazione. È stata già fissata la data?
«Papa Francesco, come sua consuetudine, non celebra beatificazioni. Con certezza sarà celebrata prossimamente a San Salvador dal prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, il cardinale Amato. La data esatta però non è stata ancora definita».

Intervista realizzata da Stefania Falasca per Avvenire

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