Mons. Antonio Staglianò, Vescovo della Diocesi di Noto, ha particolarmente a cuore i giovani e lo manifesta continuamente, incontrandoli e cercando di entrare in dialogo con loro. Questa particolare cura e attenzione alla loro vita concreta, in occasione della prossimità del Natale, hanno spinto Monsignor Staglianò ad offrire una riflessione sui giovani, sulla “sana inquietudine” che li spinge alla ricerca dell’infinito, e su una rimodulazione della vita parrocchiale, meno segnata dalla burocrazia e più docile a quanto suggerisce lo Spirito Santo.
“I giovani sono inquieti. Eppure esiste una “sana inquietudine”, secondo il Documento finale del Sinodo dei vescovi sui giovani. Inquieto è chi non riesce a trovare pace (=quiete) e, perciò, vive una disposizione negativa. Normalmente – nell’ordinarietà della vita – questa inquietudine viene disapprovata, con l’ammonimento: “stai calmo, non ti agitare”. Rimanda a qualcosa di psicotico.
Agitare l’acqua fa sempre bene, se si deve evitare che diventi stagnante. Mettere in moto, avviare dinamismi, esercitarsi a fantasticare magari aggredendo un tema coinvolgente, appassiona la vita, togliendola dalla monotonia, dona senso e gusto all’esistenza superando la “noia mortale”. Questa inquietudine evoca di certo l’esperienza dell’innamoramento: assorbe, afferra, affetta tutti i sensi del giovane, lo sequestra totalmente lo incanta con la sua luce diffusa sulla bellezza e “non gli qui da quiete”.
È giusto allora sottolineare che si tratta della “sana” inquietudine dei giovani di oggi, perché – è ovvio – esiste anche una inquietudine “non sana”: questa sorge dal grembo delle tante preoccupazioni della vita, in una società dell’ipermercato che abbaglia con promesse non mantenute e ferisce i giovani, spesso li inebetisce, sempre li anestetizza e li “quieta” con un pensiero unico, omologante, comatoso: “La vita dei giovani, come quella di tutti, è segnata anche da ferite. Sono le ferite delle sconfitte della propria storia, dei desideri frustrati, delle discriminazioni e ingiustizie subite, del non essersi sentiti amati o riconosciuti” (n.67). Da qui il paradosso, quasi un ossimoro, dell’inquietudine che blocca, che rende inermi, che incastra e tiene i giovani immobili, come accade quando – presi dalla paura per un evento incombente – invece di scappare si rimane paralizzati, lasciandosi schiacciare senza reagire.
La sana inquietudine del giovane – è un dato di fatto (lo si riconosca o no) – , perché il cuore dei giovani è abitato dal desiderio di vita nell’amore e questo lo “lega” (ha un logos, cioè una ragione) al “grande anelito di tutto il creato verso la pienezza della gioia” (n. 59). Diceva Sant’Agostino che “il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Dio”. Si, perché dovremo sempre registrare uno scarto da ciò che siamo e ciò che siamo chiamati ad essere. E questo mette i giovani “in tensione”, li porta cioè a tendersi sempre oltre ciò che viene acquisito e raggiunto: ciò che si guadagna nella ricerca è finito – caduco, impermanente -, mentre l’aspirazione è infinita, ha il sapore dell’eterno. In tutto, anche negli affetti, nell’amore, nelle faccende del cuore.
L’urgenza di riprendere l’avventura educativa si impone da sé. Qui la Chiesa viene interpellata, per non smorzare il dinamismo giovanile da cui si può/deve anche imparare: “è un’energia rinnovatrice per la Chiesa, perché la aiuta a scrollarsi di dosso pesantezze e lentezze e ad aprirsi al Risorto (n.66).
L’impresa educativa, rivolta ai giovani, dovrà essere benefica e provvidenziale per la Chiesa che deve “ripensare” e “riorganizzarsi” per essere all’altezza di questo impegno, diventando sempre meglio (e sempre più) “chiesa giovane” e giovanile, in tante sue forme, specialmente nel suo linguaggio. Stima per i giovani e fiducia nelle loro capacità, riconoscendo che spesso sono anche più avanti dei pastori (n.66): ecco i presupposti su cui fondare la loro partecipazione responsabile all’annuncio della gioia del Vangelo, in questa “epoca delle passioni tristi” (Miguel Benasayag).
Così, i giovani evangelizzano i giovani e la Chiesa non si impegnerà tanto a fare qualcosa “per loro”, ma piuttosto di “vivere in comunione “con loro”, crescendo insieme nella comprensione del Vangelo e nella ricerca delle forme più autentiche per viverlo e testimoniarlo” (n. 116). Questa è dunque la strada battere.
È un percorso che urge snellimenti negli apparati organizzativi della pastorale della Chiesa (molto è detto giustamente sulla pastorale giovanile), a cominciare immediatamente dalla parrocchia che dovrà “assumere la forma di una comunità più generativa, un ambiente da cui si irradia la missione verso gli ultimi”. Tenendo conto dei stili di vita delle persone che sono profondamente cambiati, sotto l’influsso performante della svolta digitale e di una mobilità continua, “una visione dell’azione parrocchiale delimitata dai soli confini territoriali e incapace di intercettare con proposte diversificate i fedeli, e in particolare i giovani, imprigionerebbe la parrocchia in un immobilismo inaccettabile e in una preoccupante ripetitività pastorale”.
In quale direzione va questo ripensamento parrocchiale? Nel senso di “una logica di corresponsabilità ecclesiale e di slancio missionario, sviluppando sinergie sul territorio” (n.129). Le nostre comunità di parrocchie siano un laboratorio di questa parrocchia giovane, perché la Chiesa non abbandoni i giovani, anche tenendoli dentro le sue mura.
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