«Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?» La domanda del salmista (Sal 120,1) è in fondo quella che affiora sulle labbra di ciascuno di noi quando la fatica sembra prevalere sulle nostre forze. Intuiamo facilmente il momento: il passo rallenta, ci si ferma, lo sguardo si stacca dal terreno e prova a misurare la distanza dalla vetta, figura ideale di ogni progetto realizzato, di ogni obiettivo finalmente raggiunto. Forse vorremmo poter proseguire senza esitazioni con le parole del Salmo, con l’energia ritrovata che trapela dal controcanto: «Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra». Forse vorremmo, ma la vita – specialmente la vita adulta – ci sorprende più spesso sospesi tra il primo e il secondo versetto. La vita si snoda a lungo in quella dimensione che per gli alpinisti è l’«avvicinamento».
L’avvicinamento è quello spicchio di percorso che non è ancora arrampicare, non è ancora il gusto aereo del verticale, ma non è neppure semplice camminare lungo un sentiero, in vista di un rifugio: è un faticoso andar per sassi e mughi, fuori dai sentieri, inseguendo tracce incerte. È la parte meno avvincente, la più ricca di affanno e la più povera di soddisfazione: è appena quando termina questa parte che si è all’inizio, ai piedi di una parete da affrontare e gustare in ogni passaggio.
Nell’alpinismo spesso è proprio l’avvicinamento a fare la differenza nel valutare una via. La diversità tra lo spigolo Ovest del Sass d’Ortiga (Pale di San Martino) e la via Comici alla Torre Piccola del Falzarego si misura così: tre ore abbondanti di avvicinamento nel primo caso, mezz’ora nel secondo. A separare queste due splendide vie – rendendo solitaria la prima e affollata la seconda – non è la difficoltà della roccia: sono piuttosto le tre ore di aridità attraverso il Vallone delle Mughe.
L’avvicinamento include immagini note della montagna, ma le curva in maniera particolare: porta con sé il silenzio, ma non quello placido ed armonioso del vento nei boschi. È il silenzio abitato solo dal respiro affannato, dal battito del cuore che si fa assordante. Più è lungo l’avvicinamento, più si fanno aggressivi i pensieri, perché avvicinarsi significa allontanarsi: via, lontano dal rifugio, dai sentieri più battuti, da chi potrebbe sentire un grido d’aiuto, dal campo del cellulare, dai soccorsi… basta aver camminato per due ore e aver già bruciato mezza scorta d’acqua perché il pensiero dell’abbandono inizi a farsi largo in quel silenzio ritmato dalla rumorosa evidenza delle funzioni cardio-respiratorie. «Rinuncia» è il nome della tentazione. E se per caso compare qualche nuvola ecco che quel pensiero mette radici e porta con sé anche il ricordo di chi abbiamo lasciato a valle ad attendere il nostro rientro. Sfilano le immagini di mille alternative meno rischiose per trascorrere una giornata, mentre l’attenzione è richiamata dalle ghiaie friabili, dai passaggi esposti.
E poi c’è la parete: così piccola da lontano, con quella via così logica vista col binocolo da fondo valle. E invece così imponente da sotto, mentre ci si avvicina, un po’ grati ai pochi che, passando, hanno lasciato qua e là qualche ometto di pietre per dire che sì, siamo sulla traccia giusta; ma pure un po’ indispettititi con quegli stessi che hanno annotato qualche indicazione scritta: caspita, non potevano essere più precisi? «Attacco a sinistra di un masso sotto evidente colatoio»: ma se qui è tutto massi e colatoi?
La vita di fede della persona adulta si lascia raccogliere da questa esperienza, da queste immagini in cui tutto è, insieme, incertezza e scoperta sorprendente e nulla è ripetizione distratta dei passi di qualcun altro.
L’avvicinamento alla roccia della salvezza – così il Salmo 61,2 immagina Dio – non si misura in ore, ma in anni, e conosce tanti momenti in cui gli occhi si alzano verso i monti, sospesi tra il proseguire e l’abbandonare, tra scoramento e contemplazione della vetta.
Si cammina a lungo, spesso aridamente; ingenuo pensare di farcela da soli, molto meglio avviarsi con qualcuno di più esperto accanto – in montagna nessuno si sente da meno se accanto ha una guida alpina… –.
Si cammina a lungo, con lo sguardo concentrato sul passo successivo, sulle realtà vicine, sulle situazioni ordinarie: perché in fondo proprio queste sono importanti da curare, da attraversare con delicatezza, mai con superficialità – come il terreno friabile, che si fa pericoloso quando lo si affronta senza equilibrio, con la testa altrove.
Si cammina a lungo, lottando con il pensiero della rinuncia, ma anche rallegrandosi di quei segni che di quando in quando infondono fiducia e attestano all’anima di essere sulla buona strada – come quegli ometti che di quando in quando troviamo lungo la salita.
Si cammina a lungo, ma quando finalmente si arriva all’attacco della via e le mani stringono i primi appigli sulla roccia tutto ha senso, e ogni istante dell’avvicinamento rivela il proprio valore.
Gli antichi conoscevano bene il mistero della lunghezza dell’attesa, ed avevano a disposizione il deserto e la terra di Canaan per raccontare una delle cose più difficili da accogliere nella vita spirituale: l’uomo che cerca la vita non può sottrarsi al tempo dell’avvicinamento, tempo alle volte gravoso per l’anima, ma inestimabile per allenare il cuore al ritmo della fiducia e alla speranza di un incontro.
Molti di noi, anche quest’estate, salendo da valle incontreranno in quota ghiaie riarse, mughi, ometti di pietra e finalmente pareti solide ed imponenti: esodo e terra promessa si possono declinare anche in verticale e la montagna potrà ancora una volta accompagnarci simbolicamente sulle vie dell’interiorità. di Giovanni Grandi
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