Un pezzo importante d’Italia rischia di “dissolversi”. È un dato impressionante, e inaccettabile. E sì, perché una simile prospettiva sarebbe per il Paese intero una perdita gravissima, forse una ferita mortale. Un simile campanello d’allarme deve ridestare l’attenzione di tutti e di ciascuno, nella misura del proprio ruolo e delle proprie responsabilità specifiche
Un triste, e allo stesso tempo rabbioso, sussulto nel profondo dell’anima, la mia reazione alla notizia che il Sud si sta avviando verso una ‘desertificazione’ demografica. Da uomo del Meridione, è stata veramente dura prendere atto del quadro che emerge dal Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2014. Dati impietosi, che si riferiscono al 2013 (ma il trend non è cambiato nel 2014): 177mila nascite, il numero più basso dal 1861. I decessi hanno superato le nascite, emulando quanto era accaduto solo nel 1867 e nel 1918, cioè alla fine di due guerre, la terza guerra d’Indipendenza e la prima Guerra Mondiale. Di fronte a simili numeri, la previsione del Rapporto: “Il Sud sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%”.
Che sta accadendo? Come può essere che la tradizionale ed esuberante passione per la vita, tipica del Mezzogiorno, e spesso incarnata in un alto tasso di natalità, si stia assottigliando fino a svanire? Siamo tutti consapevoli di come la crisi economica in atto continui a ‘mordere’ il nostro Paese, ma nel meridione lo fa con particolare ‘ferocia’, devastando sempre più il tessuto sociale e familiare. Secondo il Rapporto Svimez, in cinque anni di crisi l’industria nel Sud registra un decremento del 53% di investimenti, i consumi delle famiglie sono crollati di quasi il 13% . Gli occupati sono scesi a 5,8 milioni, il valore più basso dal 1977. Basti pensare che nel Sud, pur essendo presente appena il 26% degli occupati italiani, si concentra il 60% delle perdite di lavoro determinate dalla crisi. Così, si alimenta anche il fenomeno dell’emigrazione (116mila abitanti emigrati nel solo 2013). Di conseguenza, nell’ultimo anno, le famiglie povere sono aumentate del 40%.
Ecco la classifica aggiornata della “ricchezza” (si fa per dire) detenuta: la Calabria conferma il suo triste primato di regione più povera d’Italia, con un Pil pro capite nel 2013 di appena 15.989 euro, meno della metà delle regioni più ricche come Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Lombardia. Nel Mezzogiorno, la regione con il Pil pro capite più elevato è stata l’Abruzzo (21.845 euro). A seguire, il Molise (19.374 euro), la Sardegna (18.620), la Basilicata (17.006 euro), la Puglia (16.512 euro), la Campania (16.291 euro), la Sicilia (16.152 euro) e, appunto, la Calabria. Dunque, se non s’inverte la rotta, il Sud corre il rischio concreto di una progressiva “desertificazione” sia umana sia industriale. Eppure, lungo la storia recente, le difficoltà economiche e sociali non sono certo mancate nel Meridione d’Italia, ma mai la speranza si era tanto svilita da generare un trend demografico così negativo. Al contrario, forse proprio nei tempi più ardui, gli uomini e le donne del Sud hanno sempre risposto alle innumerevoli difficoltà guardando avanti, scegliendo di sperare nel futuro, di non mollare, di dare continuità a quel ricchissimo patrimonio di storia, cultura, costumi ed umanità che li caratterizza. Come? Affidandolo alle nuove generazioni. Difatti, è sempre stata una “cifra antropologica” tipica (ma non esclusiva) della gente meridionale quella di far registrare un tasso di natalità “esuberante” rispetto al resto d’Italia, tanto da attirare spesso accenti d’ironia sul tema.
Dunque, qualcosa sta cambiando nell’animo della gente del Sud, e non solo a causa dei maggiori problemi economici. Qualcosa sta profondamente mutando nel loro sguardo verso il futuro, perché rassegnarsi a non generare più figli significa proprio questo, rinunciare alla speranza del futuro. Un pezzo importante d’Italia rischia di “dissolversi”. È un dato impressionante, e inaccettabile. E sì, perché una simile prospettiva sarebbe per il Paese intero una perdita gravissima, forse una ferita mortale. Un simile campanello d’allarme deve ridestare l’attenzione di tutti e di ciascuno, nella misura del proprio ruolo e delle proprie responsabilità specifiche. Prima di tutto – lo dico da uomo del Sud – della stessa popolazione meridionale, che deve tornare a essere protagonista della propria storia con coraggio e tenacia, allontanando ogni tentazione di rassegnato fatalismo. Poi, anche le istituzioni, la politica, le forze sociali, la Chiesa, e ogni altro componente attivo della società, uniti raccolgano la sfida e siano di sostegno, nel proprio ambito, per riaccendere tra la gente la speranza del domani, quella speranza che possa ancora una volta riflettersi nello sguardo curioso e luminoso di un bimbo appena nato.
di Maurizio Calipari per Agensir