Ha un fisico minuto ed è seduta in una piccola rientranza della strada, stretta tra i binari del treno e i campi coltivati. Terra polverosa, ciuffi di canne spelacchiate, materassi e rimasugli di divani.
Munirah è seduta lì, su una sedia da giardino bianca per barbecue serali tra amici che vedi solo a luglio. Lei è lì e capisco perché non l’ho vista: i colori sgargianti dei suoi abiti-biancheria intima si confondono con i colori della plastica dei sacchetti di mondezza. A Roma non tutti fanno la differenziata. C’è chi preferisce abbandonare i sacchetti sugli spiazzi incustoditi. La Portuense ne ha una ad ogni curva, di discarica abusiva dico. Uno spiazzo e una discarica abusiva. Buste della mondezza fetide e gonfie di gas per il caldo, pezzi di tavolino, copertoni, plastica.
Munirah è lì, tra i sacchetti, con una bottiglia di acqua ai piedi. Non è notte e non sono in cerca di trasgressioni. Sono le 9.30 di mattina e vado al lavoro. Se passavo un’ora prima vedevo scendere dai pullman tante Munirah vestite da ragazzine (che è quello che sono) con in una busta di plastica i non-vestiti da lavoro. Si cambiano nello spiazzo, accanto alla sedia di plastica tra la spazzatura, e poi si siedono e ogni tanto camminano. Ma pochi passi. I tacchi sono alti. Lo spazio è poco. E la strada con le macchine che sfrecciano è lì, a pochi centimetri.
Queste cose le so perché ho guardato ma non mi sono fermato. Anche Munirah è un nome di fantasia preso dalla stampa. Non mi fermo mai e forse questo pezzo è una sorta di risarcimento. Le vedo. Di tutti i colori. Di tutte le età. Con quei vestiti che le fanno più nude che se lo fossero, ma non mi fermo perché ho paura. Perché non voglio fare la fine di Ismaele Lulli che chissà come è finito in un’imboscata del genere. Io qui non voglio parlare di prostitute. Se parli di prostitute, viene fuori un discorso serio. Di quelli con i fogli bianchi davanti e l’aria condizionata nella sala e tu che parli del fenomeno sociale, del fenomeno criminale, del fenomeno pastorale. Nessun fenomeno, oggi parlo di lei e di me.
Di lei, seduta strasudata tra le buste con gli avanzi dei vacanzieri del week end sul litorale. E di me, che non mi sono fermato perché non ci si ferma, perché non è prudente. È proprio pericoloso. È un attimo e ti ritrovi nei casini o per lo meno in una situazione imbarazzante. “Non ci si ferma mai” mi ha detto il carabiniere quando denunciavo di essermi fatto fregare cinquanta euro con la truffa dello specchietto rotto. Mi è accaduto proprio da quelle parti. Mi ha detto che non bisogna mai fermarsi. Tanto meno scendere dalla macchina. Anche se ti fanno vedere feriti. O dicono che si è fatto male un bambino o un cane. Mai fermarsi. Mai scendere. Chiamare il 113 e rimanere tappati in macchina e proseguire dritto.
Chi lo sa. Forse quel carabiniere ha ridestato dentro di me i discorsi da bambino. “Non parlare con gli sconosciuti. Non seguire mai nessuno che ti chiede aiuto o di venire a vedere una cosa. Non credere a chi ti dice che l’ho mandato io e che deve portarti da me. Se no c’ero io, Mauro, scemo, non ti sembra?” Giusto. Mi sembra. È prudente.
Pensare che Munirah potrebbe essere mia sorella certo mi fa male e mi commuove. Ma quando sono davanti a lei, mi fa più male la paura che ho. Che uomo sono diventato? Un uomo prudente o un uomo pauroso? Tanto cosa avrei potuto fare? dare una bottiglietta di acqua in più? Chiedere se si sentiva bene visto che sembrava quasi svenuta? Non lo saprò mai perché non mi sono fermato. Mi basta che non mi sono fatto fregare un’altra volta? Mi basta che non mi ha fotografato nessuno vestito da prete accanto ad una prostituta sulla Portuense? Mi basta questa prudenza, questo saper stare al mondo, che fa di una virtù una giustificazione e del mondo un posto di miliardi di solitudini? Dove la prudenza diventa barriera? E non passa più l’aria e la luce e si rimane al buio, in una tomba, in una prigione?
Non lo so. Ma questa prudenza, ormai, mi sta stretta.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da L’Huffingtonpost
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