«Ho 16 anni e vengo da Dara’a, in Siria. Sono fuggita in Giordania con la mia famiglia 2 anni fa. Trascorrere del tempo con Malala Yousafzai mi ha reso più forte. Non la conoscevo prima del nostro incontro del 2014 nel campo profughi di Za’atari, ma capisco che ha sofferto e che comunque continua a lottare per ciò in cui crede, ossia i diritti dei bambini e la loro educazione. Lei è un modello per me. Quando si tratta di battersi perché noi rifugiati possiamo continuare a studiare sono in prima linea con i miei amici, parlo alle altre ragazzine del campo dell’importanza di andare a scuola. Mia madre e mio padre mi hanno sempre incoraggiato. Proprio come nel caso di Malala». Così scriveva il 16 aprile scorso Muzoon Almellehan nel breve profilo di Malala commissionatole da Time magazine per l’inserto «100 Most Influential People of 2015».
Ma Muzoon Almellehan è a sua volta una Malala, una sconosciuta minuta eroina della durissima guerra quotidiana per sopravvivere al disfacimento della Siria e al futuro negato ai piccoli come lei. Secondo l’UNHCR almeno 2,5 milioni di siriani hanno lasciato il paese (6,5 milioni sono sfollati all’interno dei confini nazionali), un milione di loro sono bambini (ma si tratta solo delle cifre ufficiali, quelle ufficiose parlano di proporzioni doppie). Muzoon è una di quel milione, un numero. Ma, nell’oblio globale in cui da 4 anni si consuma la tragedia siriana, si batte per persuadere i genitori delle sue coetanee a lasciarle andare a scuola anzichè avviarle a matrimoni precocissimi.
La storia di Muzoon si incrocia casualmente con quella di Malala Yousafzai poco più di un anno fa, quando la giovanissima premio Nobel pakistana visita il campo profughi di Za’atari in Giordania dove in quel momento vivono Muzoon e la sua famiglia. La 15enne siriana racconta a Malala (e indirettamente al mondo) la fuga dalla natia Daraa nel 2013 poco dopo la chiusura delle scuole locali e racconta la scoperta delle coetanee che una dopo l’altra lasciano i banchi di scuola per sposarsi (20 su 40 nel giro di pochi mesi). È l’inizio della sua battaglia per l’educazione delle bambine, quella che da allora conduce quotidianamente anche nel campo di Azraq dove nel frattempo si è trasferita.
I matrimoni tra minori non erano un’eccezione nella Siria in cui Muzoon è nata (dove i ricchi sauditi andavano a far shopping di spose o anche solo di divertimento sessuale). Ma la situazione si è infinitamente aggravata. «La tendenza si sta diffondendo tra la gente come un’infezione, forse i parenti pensano che in questo modo proteggono le figlie e assicurano loro un futuro, forse pensano che sia la soluzione a tutti i loro problemi» dice Muzoon al The Daily Beast.
Incalzati dalla guerra su più fronti, da quella del regime di Damasco e da quella dei tagliagola del Califfato, i più benestanti tra i siriani stanno scappando alla volta dell’Europa e degli Stati Uniti (i siriani che giungono a Lampedusa con i barconi sono soprattutto classe media). Gli altri, i più poveri o quelli con meno contatti all’estero, si ammassano ai confini del paese nei campi profughi da cui sperano (!) un giorno di poter tornare a casa. Ed è qui, nei campi profughi, che la miscela esplosiva di disperazione, paura, pregiudizi, si abbatte sulle bambine: i genitori le maritano a 11, 12, 13 anni per dar loro una chance, per togliersi una bocca da sfamare, perché pensano che l’istruzione femminile sia inutile, per evitare di lasciarle vergini in balia degli assassini sanguinari dello Stato Islamico (casomai arrivassero).
Da due anni Muzoon (aiutata dal coraggioso padre Rakan e dalla madre) denuncia quel che vede intorno a lei e si spende per persuadere i genitori senza speranza ad averne almeno un po’ per le figlie. Secondo l’Unicef nel 2011, all’inizio della rivolta contro Assad iniziata pacificamente chiedendo democrazia e degenerata in una feroce guerra civile, il 12% delle ragazzine (underage) erano sposate, nel 2012 a percentuale era passata a un quarto e nel 2014 a un terzo. Altre organizzazioni presenti nel campo come Save the Children confermano il problema.
La Malala siriana sogna di diventare giornalista. Quando l’autunno scorso Malala, la più giovane Nobel per la Pace, l’ha invitata ad accompagnarla in Norvegia a ritirare il premio il cielo cupo che incombe sulla vita dei rifugiati si è aperto: era la prima volta che Muzoon lasciava la Siria (e la Giordania). Quando Time Magazine le ha chiesto di scrivere un breve articolo-profilo di Malala il cerchio si è chiuso: la bambina sta diventando grande, ma grande in fondo lo è sempre stata.
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