Con la lettera “N”, la lettera iniziale della parola araba “nasara” (cristiani), sono indicate le case dei cristiani di Mosul, nell’Iraq settentrionale. Una semplice “N” per discriminare, per emarginare, per violentare, per usurpare e per uccidere. Le case vuote sono state tutte requisite, mentre in quelle abitate è stato intimato agli occupanti di convertirsi, pagare la tassa di capitolazione (jizya), oppure andarsene, pena la morte. Il Vescovado caldeo di Mosul è stato occupato ed ora sventola la bandiera nera dello Stato islamico. Il palazzo episcopale dei siro-cattolici di Mosul e’ stato bruciato, appena scaduto l’ultimatum lanciato dai miliziani dello Stato islamico ai cittadini cristiani.
Il 18 luglio scorso, nelle principali moschee della città, durante la preghiera comunitaria del venerdì, sono stati distribuiti volantini in cui si comunicavano le condizioni poste ai cristiani, qualora avessero deciso di non abbandonare la città.
Il comunicato ufficiale dello Stato islamico (Is), intimato alle autorità cristiane, riporta quanto segue:
“Sia lode ad Allah, Colui che ha onorato l’islam con la vittoria, che ha umiliato l’associazionismo con la Sua conquista, che ha fatto mutare i giorni con la Sua giustizia, la preghiera, la pace sulle persone, su cui Allah ha diffuso l’islam con la Sua spada, e poi Allah, Egli è l’Altissimo, ha detto: ‘E quando alcuni di loro dissero: perché ammonite un popolo che Allah distruggerà o punirà con duro castigo? Risposero: Per avere una scusa di fronte al vostro Signore e finché Lo temano!’(Sura al-A’raf, 163). Dopo avere comunicato ai capi dei cristiani e ai loro seguaci di presentarsi all’appuntamento, in cui sarebbe stato comunicato che si trovavano sotto la protezione dello Stato islamico, distretto amministrativo di Ninive, poiché non hanno accettato e hanno evitato di assistere all’appuntamento stabilito, provocando uno strappo definitivo, è stato deciso di presentare loro le seguenti scelte: l’Islam, il Patto di Protezione (‘ahd al-dhimma) e qualora rifiutassero quanto succitato, non rimarrà loro che la Spada. Il Principe dei Credenti, il Califfo, che Allah lo esalti, ha concesso loro di abbandonare i confini dello Stato islamico entro le 10 del mattino di sabato, 21 del mese di ramadan, dopo questa scadenza, resterà tra noi e loro solo la spada. La potenza appartiene ad Allah, al Suo Messaggero e ai credenti, ma gli ipocriti non lo sanno”.
Fin dalle sue origini, nell’Islam, le norme che regolano le relazioni tra musulmani e non musulmani sono state determinate in base alle conquiste, ai costumi, alla giurisprudenza e alla teologia islamica. Quest’onnicomprensiva concezione giuridico-teologica costituisce appunto lo jihad, che è il cuore della storia e della civiltà islamica. Nel corso della storia, l’ideologia, la strategia e le tattiche dello jihad divennero elementi costitutivi della letteratura e della giurisprudenza, poiché fu grazie a tale pratica che la comunità islamica, rifugiata a Medina, realizzò la sua espansione geografica mondiale e diede vita alla sua civiltà.
All’interno di ogni territorio, l’islamizzazione poteva essere attuata con la violenza o con mezzi pacifici, come la propaganda (da’wah), o la sovversione, fino a quando l’unica religione non sarebbe divenuta quella di Allah. Il Corano recita (2; 193): “Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia reso solo ad Allah.”
Nella tradizione islamica, gli infedeli sono divisi in tre categorie:
La pace dello jihad si fonda sul principio: pace e sicurezza per le popolazioni indigene, in cambio dei loro territori e della loro sottomissione. A queste popolazioni gli era assicurato solo il godimento di limitati diritti, accompagnati però da un sistema di discriminazioni accettate sotto la minaccia della conversione forzata, della schiavitù e della morte. Questa condizione è definita dhimmitudine ed è l’esito diretto dello jihad.
Dhimmitudine è un neologismo, derivante dall’arabo dhimmi, tradotto come protetto. Il termine è stato coniato nel 1982 dal leader libanese maronita Bachir Gemayel, per indicare i tentativi della leadership musulmana del paese, di subordinare la popolazione cristiana.
Il 14 settembre 1982, in un discorso pronunciato a Dayr al-Salib in Libano, Bachir Gemayel disse: “il Libano è la nostra patria e rimarrà una patria per i Cristiani […] noi vogliamo continuare a battezzare, celebrare i nostri riti, seguire le nostre tradizioni, la nostra fede e il nostro credo ogni volta che lo desideriamo […] per questo ci rifiutiamo di vivere sotto qualsiasi dhimmitudine!” Fu assassinato, insieme ad altre 26 persone, in seguito all’esplosione di una bomba a Beirut.
Il Patriarca della Chiesa cattolica sira, Ignace Joseph III Younan, racconta, in un’intervista, la grave situazione in cui versa la città di Mosul, dove, dopo 2000 anni, non ci sono più cristiani. Younan fornisce importanti indicazioni:
“Devono sospendere tutti gli aiuti finanziari. Da chi ricevono le armi? Dai Paesi integralisti del Golfo, con il placet di politici occidentali, bisognosi del loro petrolio. Purtroppo è così. E’ proprio una vergogna! Chiediamo alla Comunità Internazionale di essere fedele ai principi dei diritti umani, della libertà religiosa e della libertà di coscienza. Noi siamo in Iraq, in Siria e in Libano: noi cristiani non siamo stati importati, siamo qui da millenni. Abbiamo il diritto di essere trattati come esseri umani e cittadini di questi paesi. Ci perseguitano nel nome della loro religione e non fanno solamente minacce ma eseguono le loro minacce: bruciano e uccidono”.
E’ terribile! Questa è una vergogna per la Comunità Internazionale! Nonostante l’invito straziante dei Patriarchi orientali, il mondo rimane in silenzio. Dopo Maaloula Kessab e la Siria, l’altra faccia della “Primavera Araba” viene inesorabilmente alla luce, come un sempre più prossimo “Inverno Cristiano”.
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