Andrea Riccardi e i biblisti Puig i Tarrèch e Giacomo Perego ricordano il valore del testo sacro per i rapporti umani e nella vita quotidiana.
«Un povero per amico»: si potrebbe riassumere con questa frase, dello storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, la conversazione tra lui e il biblista spagnolo, decano della Facoltà di Teologia di Barcellona, Armand Puig i Tàrrech. I due autorevoli relatori sono intervenuti ieri al Festival Biblico di Vicenza, su “La Parola di Dio dono per gli uomini”, da dove lo stesso Riccardi ha lanciato anche la proposta di una Giornata liturgica dedicata alla Parola di Dio (elaborata in collaborazione con la Società San Paolo).
Introdotti dal biblista don Giacomo Perego, hanno entrambi sottolineato quanto la Bibbia sia il “luogo dell’incontro fra Dio e l’uomo”. La Bibbia, ha detto Puig i Tàrrech «è la storia di un Dio che va all’incontro con l’uomo e di un uomo chiamato a riconoscere colui che viene a casa sua.Sono due vite, quella eterna e quella inquadrata in un tempo finito, che si avvicinano e a volte si separano, che si cercano e a volte si allontanano, che riposano quando si siedono a tavola, la tavola dell’amicizia. Dio è secondo la tradizione greca, l’amico buono dell’uomo, il “filantropos”, l’uomo è anche lui l’amico, colui che si rivolge all’amato, a Dio, e fa di questa amicizia una comunione che non finisce».
Ma la possibilità all’uomo di incontrare Dio attraverso il libro sacro arriva solo con il Concilio Vaticano II. Prima, ha detto Riccardi «la Bibbia era un po’ un frutto proibito. Esisteva una diffidenza da parte del mondo cattolico, nel timore che la lettura della Bibbia fosse fatta contro l’insegnamento della Chiesa».
Lo ha ben spiegato don Giacomo Perego: «Dal 13° secolo in poi, almeno in ambito cattolico, il dono della Parola di Dio è stato un dono che non veniva aperto, in seguito all’affermarsi di una lectioscolastica dottrinale più che misterica e sapienziale. Offuscata anche dalla devotio moderna e dalla meditazione introspettiva e psicologica, la Parola di Dio è stata per molti secoli un pochino ai margini della vita del cattolicesimo. Il Concilio Vaticano II, sotto la spinta del movimento biblico ecumenico e liturgico, ha rimesso al centro la Parola di Dio».
Poi Perego ha citato Enzo Bianchi, che afferma: “Come la Torah ha custodito l’identità del popolo ebraico nel periodo della diaspora, così la Parola di Dio oggi è il grande dono per custodire la nostra identità in un cristianesimo che è un po’ in esilio”.
Ma la Parola «va ascoltata – ha aggiunto il biblista spagnolo -. La Bibbia esiste quando la si apre, altrimenti resta un libro in più sullo scaffale. Aprire la Bibbia è affacciarsi alla madre di tutti i libri, alla biblioteca più completa della storia umana. La Bibbia è un concerto grosso, maestoso, solenne, drammatico, intimo, di lungo respiro, di riposanti parole, di grande slancio. La Bibbia è una sorgente inesauribile di significati, di connotazioni, di evocazioni, di emozioni e di sorprese, che avvolgono lo spirito e che fanno percorrere la storia più bella, il racconto più travolgente che ci sia». La Bibbia si legge e si ascolta. «L’ascolto fa sì che la Bibbia dia frutto, l’ascolto è come la primavera, fa sì che il testo fiorisca e si intravveda la grande raccolta».
L’esperienza dell’incontro con la Sacra Scrittura avviene per Riccardi nel ’68, quando affiorano le grandi domande, quando il mondo mette tutto in discussione, soprattutto «quella catena di trasmissione, di generazione in generazione, che era la tradizione». Dove andare? Da chi andare? Come cambiare il mondo se non si cambia sé stessi? Ma come cambiare sé stessi? E che cosa voleva dire essere cristiani in un mondo nel vortice del cambiamento? «Nella confusione delle voci e di fronte al rischio di essere ingabbiato nell’ideologia, ho sentito il bisogno dell’ascolto – spiega -. Il Concilio porgeva con le sue mani la Bibbia, era una proposta di fede che aveva nel cuore la Parola di Dio. Con i miei amici, con i quali poi sarebbe nata Sant’Egidio, abbiamo cominciato a leggere la Bibbia nelle periferie di Roma, dove affluivano a 50mila all’anno gli immigrati dal Sud d’Italia. Erano poveri, ma quei poveri sarebbero divenuti una presenza significativa per noi. E la Parola è divenuta protagonista della nostra vita comunitaria. Da quella Parola noi abbiamo attinto (e attingiamo) l’amore di Dio e del prossimo».
Così capiamo che «il povero non è un caso sociale, è un uomo e una donna. Il povero è una presenza eloquente se non lo si riduce ad una mera questione sociale, o politica. Il buon samaritano si prese cura del povero (l’uomo percosso dai briganti) con atteggiamento familiare, penso oggi ai portatori gravi di handicap, agli anziani, la cui vita è disprezzata dalla società. La bellezza dei poveri emerge solo se c’è un rapporto amicale e familiare, i più poveri devono diventare parte della tua cerchia. Nel povero si coglie il valore della vita nella sua fragilità. Come vivere la vita cristiana se i poveri sono assenti? “I più piccoli tra i fratelli” – per usare le parole di Gesù -, non possono essere emarginati. Senza i poveri, la Chiesa non vive appieno il suo mistero».
Perché, ha concluso Puig i Tàrrech: «Gesù annuncia un Dio vicino che è onnipotente nella misura in cui è compassionevole».
Di Romina Gobbo per Famiglia Cristiana