Terra Sancta et Oriens

A Nazaret i ragazzi disabili uniscono cristiani e musulmani

Questa storia racconta di un luogo nel quale si manifesta ciò che rende degni di essere chiamati “umani”. In questo luogo uomini e donne – di età, nazionalità e religione diverse – si sono alleati per prendersi cura di bambini e ragazzi speciali, segnati da gravi forme di handicap.

Qui, uomini e donne – di fronte alla disabilità e alla vulnerabilità – non si sono abbandonati alla sterile commiserazione (che ferisce chi è già ferito), né all’indifferenza verso l’altrui patire (che nell’Occidente contemporaneo è vissuta come elemento essenziale al raggiungimento del benessere personale). Qui si sono rimboccati le maniche, hanno unito le forze e si sono messi al lavoro, facendo circolare quell’agape, quello spirito di cura e protezione, che – da sempre – impedisce al mondo di sprofondare. E hanno scoperto che le giovani vite fragili e vulnerabili da loro custodite riescono a generare legami molto saldi.

Siamo in Israele, alla Holy Family School di Nazaret, dove lavorano 160 persone cristiane, musulmane e anche ebree (due). Ogni giorno, questa scuola, dalle 7.30 alle 17.30, accoglie 195 bambini e ragazzi musulmani (il 90%) e cristiani – da 1 a 21 anni – colpiti da gravi forme di handicap (quali ad esempio autismo, sindrome di Down, spina bifida). La scuola è stata inaugurata nel 1975 dai missionari dell’Opera Don Guanella, che avevano ricevuto l’invito a fondarla dalla Custodia di Terra Santa, la quale – a sua volta – aveva ricevuto questa richiesta dal governo israeliano che desiderava sorgesse un centro per disabili nel settore arabo dello Paese (Nazaret ha circa 80.000 abitanti dei quali 50.000 sono musulmani e 30.000 cristiani). Il primo nucleo del Centro aveva sede nell’ex convento delle clarisse (che per tre anni diedero ospitalità a Charles de Foucauld): nel 1992 si sono aggiungi quattro nuovi grandi padiglioni.

Una vita dignitosa e bella
Obiettivo del Centro, racconta il vicedirettore, padre Marco Riva, 53 anni (di cui 25 trascorsi in Israele), «è operare affinché l’esistenza di queste giovani vite sia non solo dignitosa, ma anche bella e serena. E ciò, nella prospettiva cristiana, significa non solo offrire loro prestazioni ineccepibili ma anche tessere relazioni personali significative. La professionalità degli operatori non può essere disgiunta dalla dimensione affettiva che comporta sensibilità, attenzione, delicatezza, disponibilità, capacità di sacrificio e di dedizione profonda. Qui non si erogano servizi, ci si prende cura dell’umano».

Gioco, apprendimento, sport, riabilitazione
Per i bambini e i ragazzi sono a disposizione, oltre alle aule per l’attività didattica, una piscina per l’idroterapia, un grande area verde per la giardino-terapia, un laboratorio di arte e di falegnameria, una sala per la musicoterapia, due sale multisensoriali, una per l’informatica e spazi riservati allo sport e al gioco. «Ogni giorno i nostri allievi svolgono molte attività che hanno lo scopo di stimolarli, farli stare meglio e consentire loro di esprimere tutte le potenzialità che posseggono», dice padre Marco. Il programma giornaliero è preparato dallo staff che ha il delicato compito di cogliere – nel corso del tempo – le attitudini e gli interessi via via manifestati da ciascun bambino al fine di ampliare gli interventi educativi e riabilitativi e idearne di nuovi.




Come in una famiglia
Haya Chahada, musulmana, 31 anni, nubile, lavora come logopedista nel Centro. Ha studiato in una scuola cattolica e – racconta – sin dall’infanzia ha avuto con i cristiani rapporti di sincera amicizia (la sua migliore amica è cristiana). Si dice «entusiasta» di svolgere la propria professione alla Holy Family School e convinta che «nell’edificazione di una società veramente giusta nei confronti dei portatori di handicap i primi nemici da combattere siano i pregiudizi e le credenze errate. I bambini afflitti da disabilità grave, ma ricchi di molte capacità, sono anzitutto figli di Dio, sono degni di rispetto e fanno parte a pieno titolo della società». Circa i rapporti con i colleghi e i sacerdoti, afferma: «Il clima è molto sereno e familiare, certamente non ostacolato né compromesso dalla diversa appartenenza religiosa. Ognuno mette a disposizione degli altri tutte le proprie capacità ed energie umane e professionali. Fra noi c’è grande unità, forte spirito di collaborazione, stima e rispetto reciproci. Siamo proprio come una grande famiglia».

Il ruolo dei bambini
Aggiunge al riguardo padre Marco: «Sono convinto che a unire tutti noi in un modo così speciale siano proprio i nostri bambini e ragazzi che aiutano a tenere i piedi per terra, a capire cosa conta veramente nella vita, a ridimensionare i problemi. Sono loro, con i loro sguardi, il loro affetto, i loro bisogni primari a sollecitare e a porre le fondamenta di quella particolare alleanza che si vive qui. Davanti a giovani vite che spesso vanno incontro a una morte prematura a causa di patologie correlate alla disabilità, giovani vite che chiedono solo di essere accolte, amate e accudite, le differenze culturali, religiose, politiche non hanno peso».

Pazienza e delicatezza
Haya sottolinea che dai bambini e dai ragazzi disabili si riceve molto: «Con un sorriso, una carezza, uno sguardo, una parola, ci trasmettono il loro affetto e il loro grande desiderio di vivere. Noi educatori impariamo a cogliere la bellezza di questi gesti semplici, impariamo a essere pazienti, a usare delicatezza, ad apprezzare i piccoli doni che Dio ci fa ogni giorno e a ringraziarlo, a fare costantemente memoria dell’importanza di valori quali l’amore, il rispetto, la gioia, la fiducia, la generosità».

L’amicizia tra i genitori
Padre Marco e i suoi due confratelli organizzano regolari incontri per i genitori dei giovani disabili con un triplice obiettivo: offrire loro sostegno, informarli e coinvolgerli nel percorso educativo e riabilitativo dei figli e favorire e incoraggiare legami d’amicizia. «Poter condividere le preoccupazioni e il peso dell’assistenza, ma anche le speranze e le gioie è fondamentale», afferma padre Marco. «I genitori si frequentano e partecipano tutti insieme, con molto entusiasmo, sia alla festa di Natale sia a quella per la fine del Ramadan che organizziamo. Nel corso degli anni tra le famiglie cristiane e musulmane, specie quelle con figli colpiti dalla stessa forma di disabilità, sono nate molte salde amicizie. L’appartenenza religiosa non è mai stata motivo di divisione».

L’intervento dello stato
La frequenza alla scuola non comporta alcun onere economico per le famiglie: tutte le spese sono a carico dello stato di Israele, che, sottolinea padre Marco, ha una legislazione particolarmente attenta nei confronti delle persone disabili, che sono protette e molto ben assistite. «Noi lavoriamo in collaborazione con i ministeri della salute, dell’educazione e delle opere sociali con i quali abbiamo voluto avviare diversi progetti». Uno è quello che prevede la partecipazione degli studenti universitari di Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme a giornate di studio sulla disabilità organizzate periodicamente dal Centro. Un altro propone l’incontro dei ragazzi disabili con gli studenti delle scuole pubbliche per gite e giornate di condivisione: «Sono momenti molto belli, che contribuiscono a edificare una società sempre più attenta alle persone disabili», dice padre Marco.

La conoscenza reciproca
Le persone autenticamente religiose (di fede diversa) che vivono e lavorano insieme in pace e in armonia, conclude Haya riflettendo sulla propria esperienza, possono testimoniare e insegnare al mondo «anzitutto il rispetto e l’accettazione dell’altro diverso da sé. La conoscenza reciproca è base imprescindibile di ogni convivenza serena e pacifica. Penso inoltre che si debba sempre operare una giusta separazione tra religione e politica».




Fonte www.lastampa.it

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