Nazareth, cristiani tra l’incudine e il martello

Nazareth non verrà visitata dal Pontefice, anche se è e resta un tassello importantissimo nella storia delle origini del cristianesimo. Pur essendo in Israele, ha ben poco di una città israeliana. Te ne accorgi appena arrivi, dalle case e dai colori che incontri. Le città israeliane sono rosee con i tetti rossi spioventi. Nazareth ha case squadrate, perennemente in costruzione, come sempre quelle arabe: le iniziano, ma non le finiscono mai. Ad ogni matrimonio, ad ogni nuova generazione, si aggiunge un piano. Nel frattempo sono un cantiere continuo. Si sente musica araba, si leggono scritte con caratteri arabi e proprio mentre arriviamo si festeggia un gigantesco matrimonio fra giovani musulmani, con musica sparata a tutto volume e lanci continui di fuochi d’artificio. E all’alba cantano i muezzin dai numerosi minareti.

Gli arabi sono il 20% della popolazione israeliana. In questa città che diede i natali a Maria e Giuseppe e dove crebbe Gesù, gli ebrei sono praticamente scomparsi. Li si vede solo in un quartiere ormai completamente separato, la Narazath Alta. Gli arabi cristiani, qui, erano sempre stati in maggioranza. Al momento della dichiarazione di indipendenza di Israele, nel 1948, costituivano il 60% della popolazione. Ma ora i rapporti demografici si sono invertiti. “Ormai non superiamo il 30%, la metà di quel che eravamo una volta” – ci spiega Abbud Said, responsabile dell’area sport e ricreazione del locale centro giovanile cattolico Ymca.

Gli chiediamo, prima di tutto, quali siano le aspettative per la visita del Papa. “Il Papa questa volta non passerà da Nazareth (che era stata una tappa del pellegrinaggio di Benedetto XVI, nel 2009, ndr), ma consideriamo un dono del Cielo che arrivi in questo Paese. Abbiamo grandi aspettative, soprattutto noi cristiani”. La popolazione (in rapporto al totale) si è, appunto, dimezzata. Abbud Said, ci spiega che il motivo principale è “ … l’emigrazione. Sempre più gente va vivere in Canada, negli Usa, in Australia. Più della metà della mia famiglia è andato all’estero. Chi resta continua a dire che vuole andarsene. Perché qui soffriamo e non è solo per il lavoro. Subiamo pressioni su due lati: per il governo israeliano siamo arabi, per i musulmani noi siamo cristiani”. Per esempio: “Ho passato da poco il confine giordano. Eravamo io e mia moglie, assieme ad altri nostri amici ebrei: loro hanno passato la dogana dopo due minuti di controllo dei documenti. Noi siamo stati controllati per un’ora e mezza, perché siamo cittadini arabi. E io mi domando sempre perché: ho 61 anni, sono sempre stato un bravo cittadino, amo il mio Paese”. Da parte dei musulmani, invece: “questa è una città sia cristiana che islamica, ma è difficile vedere qualcosa di cristiano. Girando per strada, tutto fa riferimento all’islam: nomi, decorazioni, immagini, abitudini. Come cristiano, camminando per strada, non mi sento a casa. Solo in occasione di Natale ci sono le luminarie del comune. Almeno questa è una tradizione universalmente accettata. La fede è nel mio cuore. Ma sono i simboli musulmani che incombono sui miei. E anche quando, fino a due mesi fa, Nazareth aveva un sindaco cristiano, nessuno voleva dir nulla ai musulmani, liberi di fare il bello e il cattivo tempo, perché nessuno vuole avere problemi”.

Proprio di fronte alla basilica dell’Annunciazione, dove l’arcangelo Gabriele comparve alla Madonna, una distesa di musulmani prega rivolta alla Mecca. Sono abbastanza numerosi da occupare tutta la piazza. Capiamo meglio cosa intendesse Abbud Said. Qui, il Movimento Islamico, di ispirazione fondamentalista, vuole la costruzione di una moschea, così da rivaleggiare con quella che è la chiesa più grande del Medio Oriente. Questa campagna dura da 14 anni. Una piccola area di preghiera, con cupola verde e mezzaluna è l’unica struttura costruita. Per mostrare i loro numeri, i fedeli pregano nella piazza antistante, gli altoparlanti diffondono il corano in tutto il centro cittadino. La città ha già 11 moschee. Quella che avrebbe dovuto oscurare l’Annunciazione sarebbe stata una pura provocazione, politica più ancora che religiosa. Il governo israeliano, dieci anni fa, bloccò i lavori e approvò solo un piano di compromesso: uno spazio per la preghiera in piazza.

Dietro alla grande basilica, un gruppo di giovani sta girando un video. Una ragazza e un ragazzo cercano di recitare, ma non ci riescono, scoppiando a ridere ad ogni ciak. Le ragazze parlano arabo, ma vestono all’occidentale, sono spigliate quando parlano coi coetanei, anche se abbastanza timide quando parlano con noi stranieri. Una croce al collo suggerisce la loro fede: sono cristiane, si distinguono lontano un miglio dalle loro coetanee musulmane, quasi tutte velate. Ci fermiamo a parlare con l’improvvisato attore, un diciottenne di nome Basil. Lui è musulmano ed è il protagonista del video. “E’ un compito in classe, lo facciamo per la scuola”. La trama è l’ennesima storia d’amore. In Medio Oriente sembra che non pensino ad altro. Ma non c’è alcun lieto fine. “E’ la storia di una cristiana e di un musulmano, interpretato da me, che vogliono sposarsi, ma sono obbligati dalle famiglie a lasciarsi”. Di solito succede così? “Sì, conosco tanti amici che hanno dovuto lasciarsi. O si impunta la famiglia musulmana, o quella cristiana, ma i matrimoni misti non sono molto tollerati. Qualche volta uno dei due può cambiare fede. Ma sono casi rari. Nella maggior parte dei casi, finisce come in questo film: che la cristiana e il musulmano (o viceversa) devono lasciarsi, volenti o nolenti”. Basil è musulmano e frequenta una classe mista, in una scuola cristiana. Ci sono problemi fra confessioni? “No, nessun problema fra compagni. In generale nelle classi, a tutti i livelli, siamo amici e non si fanno differenze fra religioni”. Anche con gli ebrei? “Ebrei? Ma no! Qui siamo solo arabi” ci dice con un piccolo moto di stupore, come se gli avessimo chiesto se aveva compagni di classe marziani. Se il viaggio del Papa mira alla riconciliazione fra i popoli e le religioni di questo piccolo lembo di terra, c’è ancora tanto lavoro da fare. Tantissimo lavoro da fare. Di Stefano Magni fonte:lanuovabq.it

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