Nel 2018 le spoglie mortali di san Giovanni XXIII torneranno temporaneamente a Bergamo, sua diocesi di origine, e a Sotto il Monte, suo paese natale. La notizia è stata diffusa dal vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, che ha ringraziato Papa Francesco per questo segno di benevolenza verso la Chiesa bergamasca e la sua gente.
Si tratta di un’iniziativa insolita per il corpo di un Papa santo, ma non senza precedenti: basti pensare che nel 1959 lo stesso Giovanni XXIII autorizzò per un mese il ritorno delle spoglie mortali di san Pio X nelle diocesi del Veneto e soprattutto a Venezia, che lo aveva visto patriarca prima che diventasse Papa. Capita più di frequente che i resti mortali di un santo vengano provvisoriamente traslati dal santuario in cui sono custoditi ad altri luoghi per solennizzare una circostanza o favorire la devozione dei fedeli. Il pensiero va alla salma di san Pio da Pietrelcina, che Papa Francesco volle per qualche giorno a Roma, nel febbraio 2016, durante il giubileo della misericordia.
Al di là del comprensibile entusiasmo che ha suscitato, l’annuncio merita qualche riflessione che aiuti a comprendere in profondità il significato dell’evento. Sarebbe superficiale limitarsi a dire: «Papa Giovanni torna a casa». Quei resti mortali non sono più soltanto quelli di un uomo, di un Papa: sono le reliquie di un santo. Egli ormai abita in Dio, secondo le splendide parole della liturgia: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo».
Il culto delle reliquie risale agli inizi del cristianesimo ed è stato confermato dal concilio Vaticano II: «La Chiesa, secondo la tradizione, venera i santi e tiene in onore le loro reliquie autentiche e le loro immagini» (Sacrosanctum concilium, 111). Venerando i corpi dei martiri e dei santi, la Chiesa ha espresso valori fondamentali della fede cristiana: la centralità del mistero dell’incarnazione, la comunione dei santi che si spinge oltre la morte, il valore del corpo umano «di cui si è santamente servito lo Spirito santo per compiere tante opere buone» (Agostino, De cura pro mortuis gerenda, 3, 5). Dio si è fatto carne, la salvezza è passata attraverso un corpo, quello di Gesù, «che ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo» (Gaudium et spes, 22). Onorando un santo nella sua corporeità, il cristiano afferma che la santità riguarda l’intera persona, compreso il suo corpo: non c’è vita spirituale, né sequela di Cristo, né santità che possano realizzarsi al di fuori o senza un corpo, circoscritto in uno spazio, in un tempo, in un individuo, in una storia singolare. Con il suo agire, sentire e patire, il corpo non è soltanto uno strumento dell’anima o dello spirito, ma il coprotagonista della salvezza. Certo, in questa forma di religiosità popolare non sono mancati abusi, anche gravi, contro i quali si levò, per esempio, la voce di Lutero che denunciava il commercio e la falsificazione delle reliquie, il loro uso superstizioso. Oggi il pericolo si presenta soprattutto nel modo di una religiosità che si appaga di forme tutte esteriori, punta a farne uno spettacolo mediatico che attira sì folle di devoti, ma tralascia di evangelizzarli. Lo ricordava con parole di insuperabile equilibrio Paolo VI: «Occorre evangelizzare — non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici — la cultura e le culture dell’uomo» (Evangelii nuntiandi, 20).
Il passaggio del corpo santo di Papa Giovanni nelle terre della sua infanzia e giovinezza sacerdotale promette di essere una straordinaria dimostrazione di religiosità popolare, dove il linguaggio dei sensi, i segni visibili e i gesti concreti assumono un ruolo speciale nel dare espressione alla fede. Ma perché l’avvenimento favorisca una vera adesione di fede e una solida maturità spirituale, ci vuole anche altro, come disse il 4 novembre 1958 Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano: «Non basta celebrare, bisogna imitare, non basta sentire ammirazione per il Santo, bisogna avere anche il coraggio di corrergli appresso. Dobbiamo sentire questa emanazione morale del santo, che ci chiama a una sequela molto più fedele di prima».
Senza un lavoro di approfondimento serio e quotidiano, queste manifestazioni di popolo, con i loro numeri elevati rischiano di illudere: inducono a credere che siamo di fronte a un “ritorno del sacro”, che il processo di secolarizzazione si possa scongiurare con la riesumazione di riti e linguaggi antichi. Se la religiosità popolare fosse vissuta così, come rifugio che rassicura, sarebbe un guscio vuoto, fuoco fatuo, emozione sterile. Essa invece costituisce per la Chiesa un dono prezioso, ma anche un compito: può risvegliare il sentimento religioso dei fedeli e diventare un’importante via di evangelizzazione, ma solo a condizione che sia preparata, accompagnata e seguita da un lavoro pastorale adeguato.
L’avvenimento offre un’occasione privilegiata per ricordare le origini di Papa Roncalli, per richiamare quanto profondo sia stato l’influsso che la famiglia, la parrocchia e la diocesi hanno esercitato su di lui. Ma deve essere anche l’occasione per superare le prospettive banali e anguste in cui spesso lo si è rinchiuso. Se la sua figura ha saputo conquistare tutti, laici e preti, credenti e atei, gente semplice e persone di cultura; se Roncalli ha maturato quella ampiezza di vedute, capacità relazionale e paternità universale che costituiscono il cuore della sua santità, ciò si deve soprattutto alle sue molteplici e prolungate permanenze nelle periferie del mondo di allora.
Sarebbe un grave errore interpretare questo evento in chiave di orgoglio campanilistico. Si sa, la tentazione di appropriarsi di un santo come fosse una gloria paesana, è molto antica. Viene in mente san Francesco: quando gli abitanti di Assisi appresero che il Poverello era gravemente malato, spedirono una scorta armata a Bagnara, vicino a Nocera, dove il santo si trovava, con l’ordine di riportarlo vivo o morto nella sua città natale. Quando quelli vi giunsero, il Comune fece presidiare il palazzo episcopale fino alla sua morte, per paura che i frati di nascosto ne portassero via il corpo per trasportarlo altrove (cfr. Legenda antiqua Perusiana, 64).
San Giovanni XXIII e il suo ricco insegnamento appartengono ormai alla Chiesa universale e al mondo intero. Alla diocesi di Bergamo, che accoglie con gioia le spoglie del suo figlio prediletto, è affidata l’ardua responsabilità di far parlare quelle “ossa”, di far udire forte quella voce, di aiutare le nuove generazioni a scoprire e apprezzare sempre di più il magistero di un santo capace di offrire ancora stimoli formidabili ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà del terzo millennio.
(Ezio Bolis) L’Osservatore Romano, 15-16 luglio 2017
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