Nel suo ultimo libro Umberto Eco parla anche dei papaboys! Ma non sembra averci capito molto!

Premetto che non ho letto ancora ‘Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida’, il libro ‘postumo’ in uscita di Umberto Eco, ma da alcune recensioni uscite, mi rendo conto che lo scrittore parla anche dei ‘papaboys’. Ho approfondito (per ora velocemente ndr) e come prima conclusione, traggo il fatto che l’illustre sembra non averci capito molto. Non me ne vogliano i sostenitori del defunto.

Ecco la recensione di Ibs al libro

“In un’epoca di pazzia credersi immuni alla pazzia è una forma di pazzia. Quindi non prendete per oro colato che le cose che avete appena letto”.

Pape Satàn Aleppe. Titolo geniale, un epitaffio sornione, formidabile provocazione per l’opera postuma di uno dei più importanti intellettuali italiani del ventesimo secolo. Non è solo una scelta dotta e citazionista, ma è soprattutto un breve manifesto della vita di Eco, sintetizzata in tre enigmatici vocaboli, capaci di evocare il Medioevo, le cui maestose vestigia poteva osservare dalla finestra di casa sua affacciata sul Castello Sforzesco, e il gusto dei rapporti simbolici tra le parole, lo studio dei segni, cioè la linfa vitale della disciplina che più di tutti ha saputo arricchire: la semiotica.

E cosa significa Pape Satàn Aleppe? Apparentemente nulla. Compare nel canto VII dell’Inferno ed è un’invocazione a mo’ di motto, bofonchiata minacciosamente da Pluto come se fosse un veggente cieco impazzito, una frase che solo Virgilio pare comprendere e di cui da secoli gli studiosi di Dante provano a decifrarne invano il (non)senso. Ma come si ricollega a questa opera? Attraverso una relazione simbolica meravigliosa. La proposizione è tanto oscura e indecifrabile nel testo dantesco, quanto lo sono i nostri tempi a detta degli sventurati che provano a interpretarli attraverso astruse categorie, come per esempio Il postmoderno – una campana epistemologica che sembra fagocitare tutto e nulla – un calderone che racchiude arte, letteratura, scienze sociali, cinema, tv e qualunque altra manifestazione dello scibile umano che abbia l’ardire di lasciarsi scrutare dagli occhi del confuso post-uomo. E il postmodernismo va a braccetto con la società liquida – altra immancabile categoria interpretativa dell’oggi – coniata da Bauman a descrivere le dinamiche sociali contemporanee, corrotte dall’effimero, dal non senso, dall’ipertiroidea schizofrenia verso l’inafferrabile e dal crollo delle grande narrazioni, la fine delle ideologie e della storia e la grottesca parata apocalittica che ne consegue, in attesa di chissà quale parusia a salvarci tutti quanti. Eco da magnifico interprete della contemporaneità ben conosceva la portata di questi cambiamenti epocali – ma aveva il raro dono di demistificarli e renderli pop – catturandone la sconnessa comicità.

In questa prima uscita della Nave di Teseo – casa editrice fondata da Elisabetta Sgarbi ed Eco stesso – pensata per accogliere dei transfughi della Bompiani e il cui nome è un altro rimando paradossale che ben cattura lo spirito del semiologo alessandrino, viene raccolta una selezione degli ultimi quindici anni di Bustine di Minerva, pubblicate sull’Espresso a cadenza bisettimanale. Pagine in cui l’intellettuale osservava disincantato il procedere inesorabile verso l’idolatria del pensiero unico – di cui gli italiani sono ferventi discepoli – le manie dell’uomo tecnologico e offrendoci talvolta alcune piacevoli aperture a quello che fu un suo noto divertissement: le fascinazioni complottiste – in cui persino compare Alan Kadmon – accusato di essere semplicemente derivativo e poco creativo in confronto a chi in passato era arrivato a negare l’esistenza di Napoleone.

Il volume suddivide gli articoli per aree tematiche e in ordine cronologico, una scelta brillante soprattutto per quanto riguarda la porzione del testo dedicata alle ossessioni sulla visibilità e le follie dei mass media – il web in primis – con divertenti incursioni sui fastidi procuratigli da Twitter e Facebook, una carrellata di immagini impietose che raffigurano l’abbrutimento culturale e morale dell’uomo contemporaneo de-pensante – nella sua compulsiva ossessione di avere sempre qualcosa di importante da riferire – un’urgenza quasi fisiologica che lo porta inevitabilmente all’autodenuncia inconsapevole della propria stupidità.

Imperdibile a mio avviso la prima bustina in cui si Eco si scaglia contro i preti del laicismo, i sacerdoti della tecnocrazia, fondamentalisti e miopi nel predicare un’obsoleta identificazione dell’Assoluto nel progresso, e li paragona ai papaboys, i coloriti esponenti del mondo giovanile cattolico, aperti, ai tempi di Woytyla, alle unioni prematrimoniali e al ripensamento dei dogmi più inattuali, più allergici quindi ai massimi sistemi rispetto a chi avrebbe il dovrebbe morale di scardinarli.

Eco ci lascia con un’opera eccezionale, ovviamente non paragonabile ai suoi capolavori di narrativa, ma che tuttavia, grazie alla natura antologica, offre una scansione lucida e irripetibile della liquefazione morale degli ultimi folli quindici anni di un’Italia che già rimpiange uno dei suoi più grandi cantori.

Come facciamo a spiegarglielo ora?

PERCHE’ UMBERTO ECO NON CI HA CAPITO MOLTO?

Umberto Eco identifica ‘i papaboys’ come coloriti esponenti del mondo giovanile cattolico (e questo è più uno sguardo d’insieme di coloro che ‘annusano’ un fenomeno, non ne sentono l’odore e riportano quello che altri scrivono, in questo caso si tratta di un ‘dipinto’ caoitico dei media), inoltre c’è un ‘farneticare spiritualistico’ dell’illustre, che ci definisce giovani aperti alle unioni prematrimoniali ed al ripensamento dei dogmi più inattuali. Ecco, questa visione parte da un presupposto sbagliato. Quale? qualcuno che – dall’alto della sua cultura – parla e scrive di qualcosa che in effetti, non conosce. E sbaglia. Bontà sua. E riposi in pace.

di Daniele Venturi

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