Prima cittadina straniera a ricevere il prestigioso riconoscimento, la 67enne Anuradha Koirala è tra le personalità di cui il 25 gennaio, alla vigilia della Giornata dell’indipendenza nazionale, è stata annunciata la prossima consegna del Padma Shri, una delle principali onorificenze civili indiane.
La significativa scelta è un riconoscimento all’opera umanitaria della Koirala. Un impegno diffuso ben oltre i confini del suo Paese, il Nepal. E portata avanti negli ultimi 27 anni da Maiti (Casa materna), l’organizzazione da lei creata con il fine di tutelare le giovani nepalesi a rischio a sfruttamento. All’interno del territorio nazionale e all’estero. Eppure pochi conoscono il nome di Koirala. Tutti la conoscono semplicemente come “dijju”, la sorella maggiore. Così lei si presenta e agisce nei confronti delle ragazzine a rischio tratta. Nel proprio sito, il premier indiano Nerendra Modi, nel descrivere le motivazioni del riconoscimento, ha spiegato come il coraggio di “dijju” abbia «salvato e recuperato 12mila vittime e impedito che altre 45mila fossero sfruttate».
Trasformando una fragile insegnante nel baluardo nella salvaguardia dei diritti e dell’onore delle proprie connazionali contro la tratta. Sicuramente, il prestigioso Padma Shri – che le verrà dato durante una cerimonia ufficiale a New Delhi a marzo o aprile – rappresenterà uno stimolo ulteriore per la fondatrice di Maiti. Il lavoro, purtroppo, non manca. Le condizioni del Nepal continuano a essere propizie per infiltrazioni di potenti organizzazioni criminali specializzate nello sfruttamento delle donne nella prostituzione, nella manifatture e nel lavoro domestico. Spesso, in Paesi confinanti come l’India o il Pakistan, ma anche più lontano. Come ha sottolineato la stessa Koirala alla notizia dell’assegnazione del riconoscimento, «la prima destinazione è l’India, ma negli ultimi anni si è assistito ad un aumento verso Cina, Africa e Paesi del Golfo». Il motivo che rende il mercato della prostituzione in India così florido, ha spiegato in un commento ripreso da AsiaNews, «è che non serve il visto per attraversare la frontiera tra i due Paesi. Inoltre le ragazze nepalesi hanno gli stessi tratti somatici delle indiane, perciò è difficile distinguerle». Un problema già tragicamente diffuso in Nepal.
E ulteriormente aggravato dalle condizioni successive al terremoto del 25 aprile 2015 che distrusse 600mila abitazioni, ne danneggiò quasi 200mila e provocò 9mila morti. Dando anche un colpo mortale all’economia di diverse regioni di un Paese dove la popolazione è già per un quarto sotto la linea della povertà. Come ricordato da Caritas italiana a un anno dall’inizio del suo impegno in Nepal, già prima del sisma i dati erano allarmanti, con «20-25 mila ragazzine e bambine impiegate nei lavori domestici, 7-8 mila donne e bambine trafficate localmente per lo sfruttamento sessuale, 10-15 mila donne e bambine nepalesi trafficate in India». La stessa Caritas ha confermato l’allarme di altre organizzazioni, tra cui Unicef e Human Rights Watch. Queste affermano come «dopo il terremoto la situazione della tratta è stata aggravata dalla perdita delle attività di sostentamento e dallo sgretolamento dei meccanismi di protezione sociale». I ritardi nella ricostruzione – sovente denunciati e legati più alla gestione locale che alla disponibilità di fondi garantiti dai donatori – allungano ulteriormente le ombre sul futuro di migliaia di donne nepalesi.
Fonte www.avvenire.it
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