Categorie: Pax et Justitia

Ninive, l’ultima ‘isola’ dei cristiani

«La nostra gente è in preda al panico », lamenta un sacerdote caldeo della Piana di Ninive, a est di Mosul. Tra gli abitanti della fertile zona stretta tra il Tigri e il Grande Zab circolano storie sugli orrori subiti daicristiani di Mosul, oraaccolti nelle loro case. Qualcuno ritiene certi racconti «esagerati», come quello relativo al suicidio di un padre per evitare di assistere allo stupro della figlia. «Ma è difficile per noi, continua il prete, rassicurarli e chiedere loro di mantenere il sangue freddo». L’ordine intimato domenica dall’Isis ai monaci di Mar Behnam di «andar via e lasciare le chiavi» non è certo un buon segnale. Nella località di Qaraqosh, a pochi chilometri dal monastero violato, l’ultimatum ha accresciuto ulteriormente lo stato di allarme. La cittadina aveva subito, lo scorso 25 giugno, un bombardamento nel corso di scontri che hanno opposto l’Isis alle milizie curde. L’indomani, la maggioranza dei 50mila abitanti è partita verso località più remote: Erbil, Dohuk, Aqra, Alqosh e Kirkuk. Lo stesso clima di terrore regna nelle altre località. La Piana di Ninive, considerata dai cristiani iracheni come il proprio “homeland”, è di fatto diventata la prima linea di confine a ridosso dell’autoproclamato Califfato islamico. Una piccola avanzata dell’Isis nella zona significa per i cristiani la fine della loro bimillenaria presenza. La linea verticale che corre a est di Mosul è, infatti, costituita esclusivamente da località cristiane: da Qaraqosh (detta anche Baghdida), a sud, fino ad Alqosh, sulla via per Dohuk, passando per Karamless, Bartela, Baashiqa, Bahzana, Telkaif (Tel Kepe), Batnaya, Tellsqof e Sharfieh. La zona ha accolto, in diverse ondate, dal 2003, centinaia di migliaia di cristiani scappati dall’orrore delle autobomba a Baghdad. I fedeli pensavano di trovarvi un’oasi tranquilla e soprattutto un’alternativa all’emigrazione verso Paesi lontani. La Piana è, inoltre, estremamente ricca di chiese e mona-steri, dove ora si rischia il ripetersi di atti vandalici e profanazioni già registrati in altri luoghi di culto cristiani finiti nelle mani dei jihadisti.

«La polizia e l’esercito di Maliki (il premier iracheno, ndr) ci hanno deluso», si sente ripetere a Bartela, a mezz’ora di macchina da Mosul.
Per evitare di essere colti di sorpresa, i 4mila abitanti hanno deciso, dopo l’occupazione di Mosul da parte dei jihadisti di al-Baghdadi, di formare una propria forza di autodifesa, “Hirasa” in arabo. Circa 600 giovani hanno indossato la divisa bianca, ma solo uno su due possiede un kalashnikov. «I nostri uomini non possono fermare da soli i jihadisti, dice il 24enne Saba, ma in caso di necessità interverranno i peshmerga», cioè i miliziani curdi. Questi ultimi hanno già da tempo istituito un check-point all’ingresso della cittadina, mentre i giovani di Hirasa stazionano intorno alla chiesa dedicata alla Vergine Maria e ad altri luoghi di culto, oppure accompagnano il sacerdote e le suore
nelle loro visite alla comunità.

Si materializza così – al costo di tante tragedie e vite umane – l’antico progetto di “ghettizzazione” dei cristiani nella Piana di Ninive, come preludio all’effettiva tripartizione dell’Iraq tra curdi, sunniti e sciiti. Un progetto definito qualche anno fa da un prelato iracheno «un miraggio irrealizzabile ». Si tratta di un vero dilemma per i cristiani, che si trovano ora intrappolati, loro malgrado, tra i vari belligeranti. La gerarchia ecclesiastica irachena ha sempre ritenuto l’idea di una “zona autonoma” per i cristiani «un progetto pericoloso per il futuro della Chiesa irachena».

La missione della Chiesa, si sottolineava, è invece «quella di essere un ponte fra le diverse culture in un Paese fondato su principi civici, non in un Iraq diviso e ripiegato su se stesso». Ancora nel 2010, quando a Mosul si era verificata una prima campagna di terrore e migliaia di cristiani erano stati obbligati all’esodo, si era alzata la voce dei pastori contro la strumentalizzazione politica del dramma. Allora, un esperto caldeo aveva affermato che creare un’enclave nella Piana di Ninive porterà solo a delle complicazioni nel Paese perché, nel migliore dei casi, essa diventerà una zona cuscinetto tra arabi e curdi». Basta oggi sostituire «arabi» con «jihadisti» per capire che la previsione si è purtroppo verificata.

Di Camille Eld per Avvenire

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