È un edificio a un piano solo, il tetto di ondulato, in fondo a una viuzza sabbiosa che con l’auto non si può percorrere fino in fondo. Graniglia povera i muri esterni, grezze le pareti interne di questa casa separata dalla strada da uno smilzo muro di cinta e qualche passo nella sabbia rossa.
Rachitici rami di rosa sotto una finestra a losanghe mobili di vetro, una florida peonia e qualche altra pianta verde dalle foglie spugnose dalla parte del muro di cinta. Le due ante di una porta in legno danno su di un salone che pare un garage magazzino: lunghe file di scatoloni impilati fin quasi al soffitto, due archetti sulla destra oltre i quali si intravedono altri scatoloni ancora, solo nell’angolo in fondo a sinistra stanno alcuni divani senza imbottitura, un tavolino basso e una tivù a schermo piatto. La successione di scatole nasconde alla vista l’opprimente grigio fumo di Londra delle pareti spoglie e il corridoio che porta alla camera da letto, al bagno e alla cucina. Una statua bianca e azzurra della Madonna grande come una persona tiene sotto il suo sguardo tutta la stanza dal lato ingresso.
Questa è la casa di Gregoire Ahoungbonon, 65 anni, fondatore dell’associazione San Camillo che da un quarto di secolo si occupa con sovrumana abnegazione dei malati mentali, gli ultimi degli ultimi dell’Africa, come ripete l’ex gommista e migrante rientrato. «Tre anni fa stavo andando in auto con una suora e un missionario francesi a Bohicon, quando abbiamo notato un uomo nudo che camminava spedito lungo la strada. Abbiamo capito subito che era un malato. Ci siamo fermati e lo abbiamo convinto a salire con noi, per portarlo al centro. Qualcuno ci ha visti e ha chiamato la polizia. Al primo villaggio ci hanno fermato e un poliziotto col mitra spianato è venuto al mio finestrino: “Scendi subito o sparo!”, ripeteva. “Spara!”, gli ho detto io. Erano certi che avessimo rapito il pazzo per espiantargli gli organi e venderli in Nigeria. C’è voluta un’ora per convincerli delle nostre spiegazioni e perché ci chiedessero scusa!».
In realtà Gregoire un’altra casa ce l’avrebbe, è una palazzina a due piani di qualche pretesa, a un chilometro da qui nello stesso anonimo quartiere Pekka 10, groviglio di strutture industriali e residenziali interrotte dal filo spinato del lungo perimetro di un riformatorio dal quale nottetempo sgattaiolano ladruncoli che sono il tormento del vicinato, sulla destra della strada che da Cotonou conduce a Porto Novo costeggiando l’oceano. Ma quella è la casa destinata agli ospiti, a benefattori e volontari stranieri e africani che sono rimasti fedeli al proposito di collaborare all’unica iniziativa che si conosca di un africano che si occupa di malattie senza cercare il profitto e senza appartenere a un ordine religioso. E senza truffe a sfondo mistico o a base di spartizioni di percentuali fra medici e farmacisti.
Seminudo nell’immondezzaio
La casa dice tutto o quasi di chi ci abita. Per esempio quella degli eredi del Reverendo Profeta Pastore Fondatore Samuel B. J. Oshoffa, dal quale è nata una Chiesa cristiana indigena che promette guarigioni sia spirituali sia fisiche, è un bel palazzo a due piani a pianta tondeggiante, tutto colonne e verande, con un giardino curato all’europea e lampioni molto britannici, all’ingresso di Porto Novo. In tutta l’Africa sub-sahariana, ma soprattutto nel golfo di Guinea, chi ha una personalità decisa, teatrale e carismatica, fonda una religione così come si avvierebbe un’impresa, e in poco tempo diventa ricco per sé e per la sua discendenza. Deve riuscire a far credere di poter guarire le malattie e scacciare la cattiva fortuna, con gli opportuni riti ed esorcismi. Se a qualcuno le cose continuano o ricominciano dopo un po’ ad andare male, la colpa è solo sua, perché evidentemente è ricaduto nel peccato dal quale era stato purificato. Gregoire aveva le carte in regola per intraprendere con successo questa strada, e invece ne ha presa una molto diversa, che ha visto accogliere e assistere quasi gratuitamente 60 mila malati mentali nel corso di venticinque anni in quattro paesi dell’Africa: Costa d’Avorio, Benin, Togo e Burkina Faso. Malati guariti, meglio dire stabilizzati, grazie a un cocktail di psicofarmaci di prima generazione, amore cristiano, terapeutica comunitaria. In questo momento ci sono 25 mila malati, in parte nei centri di accoglienza (dieci attualmente) e di reinserimento (una mezza dozzina), in parte rientrati presso i villaggi o le città di origine, che hanno ritrovato se stessi e una vita decente grazie alla San Camillo, spendendo da 10 a 100 volte di meno di quello che spenderebbero se ricorressero alle cure dei pochi centri ufficiali esistenti, pubblici, privati o religiosi (e non parliamo di quelli delle sètte, ma di quelli delle grandi confessioni cristiane).
Ma la religione c’entra eccome anche con la vicenda di Gregoire. La storia qualcuno già la sa. Poco meno che ventenne parte in cerca di fortuna in Costa d’Avorio, l’eldorado dei migranti africani degli anni Settanta, e lì effettivamente passa in pochi anni da gommista che lasciava chiodi a tre punte sulle strade per procurarsi clienti a gestore di una piccola flotta di taxi. Si sposa e mette su famiglia. Ma gli affari prendono una brutta piega, incidenti e debiti lo mettono sul lastrico. Arriva a un passo dal suicidio. Trascura e quasi abbandona la fede cattolica nella quale il padre lo aveva cresciuto. Resiste però ai tentativi di chi cerca di fargli cambiare religione: «Sètte, protestanti, musulmani: tutti promettevano di aiutarmi finanziariamente e di procurarmi altre mogli. Ma io ho resistito, perché sapevo che in fondo al cuore appartenevo ancora a Cristo».
Un missionario francese si interessa al suo caso e gli offre la possibilità di un pellegrinaggio in Terra Santa: ne torna trasformato. Crea un gruppo di preghiera per i malati che si occupa anche degli aiuti materiali a quelli più poveri ricoverati nell’ospedale e ai detenuti del carcere di Bouaké, la città ivoriana dove è andato a vivere. Un giorno, spostandosi in auto, nota un uomo seminudo e scarmigliato che scava in un immondezzaio alla ricerca di qualcosa da recuperare: è un malato mentale, uno dei numerosi che si trovano agli incroci delle strade. «Avevo notato quel genere di persone altre volte, ma guardavo senza vedere: quella volta l’ho visto per davvero. Mi sono detto: “Eccolo il Cristo, che cerco nelle chiese e invoco nelle preghiere, è qui davanti a me”». Comincia quel giorno l’epopea della San Camillo (Gregoire aveva scelto quel nome per la sua associazione colpito da una frase di san Camillo de Lellis: “I malati sono la pupilla e il cuore di Dio. Rispettateli”).
Gli agenti pubblicitari del Diavolo
Nasce il primo centro di accoglienza, presso la bouvette dell’ospedale di Bouaké, poi gli altri, poi cominciano le liberazioni dei malati introncati e incatenati dalle famiglie disperate nei villaggi, larve umane che tornano alla vita, poi le liberazioni dei malati dei campi di preghiera e guarigione, tormentati da sedicenti profeti con digiuni e frustate oltre che con preghiere per cacciare gli spiriti malvagi della malattia psichica. Sin dall’inizio africani e missionari europei restano affascinati dall’iniziativa e vi partecipano con l’apporto personale o coprendo i costi, ogni giorno più grandi perché Gregoire non si ferma mai e allarga la platea dei bisognosi da servire andando a cercarli per le strade e nei villaggi per portarli nei centri. Arrivano i primi premi internazionali, si consolidano gli sponsor in Francia, Italia, Canada e Spagna. La San Camillo apre centri negli altri tre paesi, crea servizi per i malati rientrati ai villaggi presso gli ambulatori missionari di molte regioni, soprattutto in Benin, perché possano continuare ad acquistare e assumere medicinali a basso costo. E arriviamo ai giorni nostri.
Quanto rappresenta un superamento della tradizione e dei condizionamenti socio-culturali africani l’opera di Gregoire, e quanto invece rappresenta un’espressione originale ma anche una continuazione degli stessi? La prima cosa che ha colpito e continua a colpire noi osservatori non africani è la vistosissima rottura con due caratteristiche negative dell’Africa contemporanea: la perdurante ipoteca del mondo degli spiriti sulla visione che della realtà hanno gli africani, e la venalità che prima o poi traspare in iniziative dichiaratamente avviate per rispondere a bisogni sociali. Tali sono le energie del fondatore della San Camillo, che trova anche il tempo per propagandare in conferenze nelle parrocchie e presso i gruppi giovanili e negli incontri con le famiglie dei malati una concezione della malattia e della sua cura lontanissima dalle spiegazioni che fanno riferimento alla stregoneria e all’azione diabolica. Quando gli è possibile, presenta al pubblico qualche europeo afflitto da malattie, psichiche od organiche, e gli fa elencare ad alta voce i medicinali che sta assumendo. Questo serve a dimostrare che le malattie mentali sono diffuse anche fuori dall’Africa, cioè fuori dal raggio di azione di presunti stregoni e iettatori, e che è normale assumere medicinali per lunghi periodi o per tutta la vita per tenere a bada malattie psichiche e non. «Le malattie mentali sono malattie come le altre, si curano con le medicine. Tutto questo parlare del diavolo è scandaloso!», tuona. «Siamo gli agenti pubblicitari del diavolo, quando lo chiamiamo in causa per ogni cosa! Giobbe non incolpò né Dio né il diavolo per tutto quello che soffrì quando Dio diede al diavolo la libertà di tentare la sua fede facendogli perdere i suoi beni».
I soldi non sono tutto
L’incorruttibilità anche di fronte alla possibilità di mettere le mani su grandi somme di denaro è l’altra caratteristica sbalorditiva. I conti dell’opera sono un mistero africano, ma è palese che tutte le entrate servono ai fini statutari. La modestia del focolare domestico, dell’abbigliamento e dello stile di vita è solo uno degli indizi dell’assenza di venalità. Un altro è il fatto che Gregoire non corre dietro ai potenziali benefattori: a Cotonou pochi giorni fa è arrivata un’inviata della fondazione internazionale Ashoka, un’incantevole giovane donna senegalese che doveva convincere il fondatore della San Camillo a entrare nei ranghi dell’organizzazione, portandolo con sé a un summit a Lagos. Non c’è stato niente da fare, con molti sorrisi e gentilezza l’offerta è stata declinata: i soldi non sono tutto, l’autonomia vale di più. In passato si è arrivati alla rottura con benefattori libanesi e svizzeri dalle tasche profonde, che non avevano tutti i torti: esigevano rendicontazioni, volevano concludere un progetto prima di cominciarne uno nuovo, chiedevano informazioni sulla sostenibilità delle spese correnti. Tutte cose per le quali l’idiosincrasia di Gregoire è totale, e non solo per essere libero di cambiare la destinazione dei fondi in arrivo in base alle urgenze del momento, ma per il suo caratteristico approccio africano riletto e proposto in chiave cristiana: «Questa non è la mia opera, è un’opera della Provvidenza», spiega. «E io non posso fare i conti in tasca alla Provvidenza, come non posso dire a un malato “non ho le risorse per te”. Dio provvederà al suo gregge, e se non provvede significa che è giusto così».
Psichiatria comunitaria
Caratteristicamente africana è anche la sua risposta alla domanda tipicamente euro-americana sulla continuazione dell’opera. A crescere un successore Gregoire non ci pensa proprio: «Anche questo è un lavoro che spetta a Dio. Se vuole che l’opera prosegua, farà sorgere un continuatore, altrimenti la San Camillo finirà e Dio farà nascere qualcos’altro per i suoi poveri. Chiamerà un altro come ha chiamato me».
Ma ci sono anche caratteristiche africane meno disarmanti di queste, e molto qualificanti, che il padre camilliano Thierry, del centro di Djougou nel Benin settentrionale, sintetizza così: «Il carisma di questa opera è di avere uno sguardo sui malati diverso da quello della psichiatria ufficiale. Non c’è più la barriera fra chi cura e chi è curato, gli uni e gli altri si ritrovano su un piede di parità. I primi momenti dell’approccio al malato, quando viene recuperato dalla strada o quando arriva al centro condotto dai parenti, sono quelli decisivi: lui percepisce uno sguardo su di sé che per anni nessuno gli ha riservato. Quando comincia a stare meglio, accetta con entusiasmo la proposta di occuparsi lui a sua volta dei nuovi malati. Così si crea una comunità terapeutica vera, dove i malati curano i malati». «Sì, questi centri funzionano come una vera comunità», conferma Isabelle, una giovane infermiera francese specializzata in psichiatria che ha operato per un anno al centro di Tokan e sta per tornare in Francia. «Vivere insieme, operatori e malati, è una cosa straordinaria, e ha un’efficacia terapeutica. Insieme agli psicofarmaci, che da noi costano veramente poco perché sono le sette molecole di base definite farmaci essenziali dall’Oms, e dei quali esiste la versione generica». Chiamiamola pure psichiatria comunitaria, originale prodotto africano che funziona anche in proiezione verticale e internazionale: in questi anni sono stati curati con successo anche tre giovani francesi “de souche”, quattro sacerdoti e una decina di religiose africani, quasi tutti passati attraverso ospedali psichiatrici europei prima di approdare nei centri della San Camillo!
E con tutto questo Gregoire, pur focoso di carattere, non si dà arie: «Potrei fare molto di più, se avessi un po’ più di fede. Dio ha fatto questa cosa grande, mi ha dato doni su doni, ma io sono pigro. Non dico mai “io ho fede”, perché so di averne poca. Se avessimo fede quanto un granello di senape, dice Gesù, sposteremmo le montagne. Ma non le spostiamo! E questo cosa significa? Se anziché me Dio avesse scelto un féticheur (un adepto del culto degli spiriti), forse quello avrebbe saputo fare più e meglio di me»
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