È l’articolo di una giornalista che apriva un piccolo spiraglio. Voleva far passare un po’ di luce e d’aria in ciò che succede a una donna madre. Non voleva giustificare nulla, voleva dire: guardiamoci e non solo guardiamole. “Le mamme sono persone e le persone commettono errori incomprensibili ai quali si cerca di dare una spiegazione per mettersi al riparo dalla paura di commetterne uno analogo.” Io leggo e ingoio un grido interiore: uguale a lei, no! Ma poi mi dico che Deborah ha ragione, anzi di più.
Lei voleva parlare di noi, delle persone. E allora, accanto alle mamme, aggiungo: non esistono papà buoni e papà cattivi, preti buoni e preti cattivi, maestri buoni e cattivi, figlie e sorelle buone o cattive (ricordate Erika De Nardo nella tragedia di Novi Ligure?). Ho guardato le foto degli indagati, accusati, dei delitti più efferati degli ultimi anni. Cogne, Annamaria Franzoni. Delitto di Garlasco: vittima Chiara Poggi, imputato Alberto Stasi. Omicidio di Yara Gambirasio, imputato Massimo Bossetti. Andrea Loris Stiva: imputata la mamma Veronica Panarello.
È una carrellata di dolore e di sangue, certo, ma è anche una carrellata di volti da ascensore. Di quei volti “Buongiorno Don”, “Buonaserata dottore”. Di quei volti che al massimo li vedi arrabbiati alla riunione di condominio. E invece hanno ucciso, hanno occultato. E l’hanno fatto dopo l’ennesimo “Buongiorno Signora”. Non voglio entrare nello specifico di nessuno dei casi di cronaca: fosse uno basterebbe. Ce la vogliamo dire la verità? Non sempre c’è la spiegazione medica o sociologica. Ma davvero dopo Caino ed Abele, ancora non riusciamo a dirci che possiamo essere entrambi? Che il buco dentro Caino ce l’aveva pure Abele? E lo chiamo buco apposta perché il problema del male è che lì, in quel posto del cuore dove doveva esserci del bene, in quell’angolo dove diciamo che c’è il male, il bene non c’è. Non è che c’è un bene “altro” che chissà come va difeso. C’è un buco di bene. E questo buco – e più di uno – ce l’abbiamo tutti.
Lo so che fa l’effetto di camminare su un ghiacciaio senza sapere se sotto c’è il crepaccio ma è la vita, signori. Si chiama: realtà. E, sì, a volte atterrisce. E per questo elaboriamo dei bei costrutti mentali che non servono a nulla, se non a illuderci di stare tranquilli. Una ragazza subisce violenza e, chiaro, è terrorizzata all’idea che possa accadere di nuovo. Allora dice a sé stessa (e magari glielo diciamo noi): è colpa mia perché avevo la minigonna; è successo perché sono rientrata tardi; dovevo stare più attenta e non parcheggiare la macchina così distante dal portone. Non lo farò più: basta minigonne. Non lo farò più: basta tornare tardi. Non lo farò più: basta parcheggi al buio. E la sua memoria, della ragazza intendo, ha compassione di lei, e le nasconde che solo due giorni prima una ragazza come lei era stata abusata in pieno centro. A mezzogiorno. E che nessuno si era fermato. Perché come si fa a vivere sapendo che ti può succedere una cosa terribile e che non esiste un meccanismo che possa esimere l’uomo dalla sua libertà, dall’essere buono o cattivo? Come si fa a vivere sapendo che potrei essere io Caino, e che si saprà solo alla fine? E che ha ragione Meryl Streep quando ne Il diavolo veste Prada replica a Anne Hathaway che le dice “io non potrei mai essere come te”: “oh ma tu l’hai già fatto: tu hai scelto…“.
I mostri non sono come le streghe delle favole che hanno gobbe, la verruca sul naso e i denti brutti. Quelli sono i trucchi ridicoli che diciamo a noi stessi così da permetterci di continuare a ballare sereni sull’orlo del precipizio. I mostri hanno il viso del ragazzo di buona famiglia, della giovane mamma, della moglie che gestisce casa e bambini e marito, del vicino di casa, della tata fidata, del marito della porta accanto.
Hanno il nostro viso.
Metti uno schema, metti i paletti, metti i valori non negoziabili, metti la legge, metti il nero e il bianco, i buoni e i cattivi sulla lavagna, e avrai messo una cintura di sicurezza alle tue paure. Ma dalla tua libertà non puoi scampare. Quella ce l’avrai dall’inizio alla fine.
Uno dei commenti diceva che era un articolo infarcito di ovvietà e banalità. È verissimo. È ovvio. Ma qual è il problema più difficile da risolvere? Quello che non riconosco come problema. Se non mi guardo in faccia, forse non riuscirò mai a comprendere, che noi uomini non siamo degli indicativi, ma dei congiuntivi, dei condizionali. Quando diciamo: io non lo farò mai, io non sono così, stiamo semplicemente mentendo. E invece se mi guardo alla specchio forse riuscirò ad usare il condizionale. Io vorrei amare. Io non vorrei uccidere. Io vorrei capire. Io vorrei non giudicare.
Di Don Mauro Leonardi
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