Categorie: Ethica et Oeconomia

Non lavorano, non studiano… Ma cosa fanno i “Neet”?

Il sociologo Dario Nicoli prova a tracciare l’identikit di una categoria che ingloba il 32 per cento dei giovani italiani ma che di fatto è indefinibile (non sono i «bamboccioni»).

Si chiamano “Neet” e si aggirano tra noi. Neet è l’acronimo di “Not (engaged) in Education, Employment or Training”, cioè nullafacente, sia dal punto di vista dello studio che del lavoro. Il fenomeno riguarda secondo le statistiche soprattutto questi ultimi anni, ed è localizzato principalmente nella fascia di popolazione di età compresa tra i 20 e i 30 anni, con alcune eccezioni. Il rapporto 2014 dell’EU Social Justice Index 2014 – un progetto del think tank tedesco Bertelsmann Stiftung che mette a confronto 28 paesi europei in termini di giustizia sociale (prevenzione della povertà, diritto allo studio, accesso al mercato del lavoro, coesione sociale, sanità, giustizia intergenerazionale) – ha decretato che in Italia i Neet sono il 32 per cento dei giovani, la più alta percentuale in Europa. Nel nostro paese, insomma, un ragazzo su tre attualmente non sta studiando né sta cercando lavoro. Ma è davvero così radicata questa “tendenza” tra i giovani italiani? Tempi.it

lo ha chiesto a Dario Nicoli, professore di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Professor Nicoli, il dato del Social Justice Index le sembra rispecchiare la realtà?

Più che commentare la percentuale del 32 per cento, vorrei innanzitutto domandarmi, e domandarlo a chi stila questo tipo di rapporti, come si possa pretendere di calcolare esattamente quanti siano i cosiddetti Neet. Per calcolare questa percentuale di popolazione, si deve partire da una negazione. Chi non ha comunicato allo Stato di essere impegnato in studi universitari o impiegato in un lavoro viene quantificato come Neet. Ma non è detto che queste persone siano necessariamente nullafacenti. Magari lavorano in nero, o sono sottopagati, per questo sono invisibili agli occhi della società.

Quindi i Neet soffrono di esclusione sociale?

Non è detto. Nel mondo della comunicazione, per esempio, ci sono tantissimi cosiddetti Neet. Prendiamo il caso di un giornalista musicale, uno che scriva tutti i mesi su una rivista prestigiosa del settore, che vada ai concerti, che compri i dischi per recensirli. Certo, uno così non si sente socialmente escluso, anzi, si sente riconosciuto, viene lodato per il suo lavoro. Ma in quanto a compensi magari ottiene poco, viene pagato saltuariamente e in nero, e dunque per lo Stato non esiste. È un Neet, ma di fatto non lo è.

I Neet, ci dice, hanno di solito alle spalle una famiglia che li sostiene. Subito il pensiero va al termine “bamboccione”.

La famiglia diventa il proprio datore di lavoro, nel senso che provvede al mantenimento in caso di disoccupazione o di retribuzione insoddisfacente. Quello che i genitori si concedono è un lusso rischioso. Non voglio dire che invece dovrebbero disinteressare dei figli, per carità, solo che il ragazzo che si trova in questa condizione di limbo potrebbe adagiarsi. E non darsi più da fare, alla lunga, crea una spirale negativa.

È possibile cercare di dare un’immagine dei Neet?

Il dato di fatto iniziale è che i Neet sono un insieme di storie, ognuna delle quali è un caso a sé. È difficile dare un’immagine unica. Potremmo cominciare col dire che sono ragazzi che hanno sbagliato il percorso di studio, che dopo la triennale hanno fatto la biennale, e poi ancora un master, un altro master, hanno cercato di entrare nel mondo della ricerca universitaria ma non ci sono riusciti. Anno dopo anno sono arrivati a compierne 35, inseguendo qualcosa che non è mai stato troppo concreto. Poi ci sono i ragazzi meridionali, intesi come residenti al Sud, dove non c’è domanda e non c’è offerta di lavoro, tutto è immobile e nessuno riesce a trovare un impiego. Lì non si può parlare di crisi, la situazione economica è stabile da decenni, e talvolta i genitori, per riuscire a mantenere tutti i figli a carico, sono costretti a trasferirsi dalla città alla casa in campagna del nonno. Poi ancora ci sono gli studenti “persi”. Quelli che non si sono mai impegnati realmente, che si lambiccano nella propria pigrizia con la scusa che “c’è la crisi”. Li riconosco subito, questi Neet, tra i ragazzi ai quali insegno.

Lei insegna a studenti universitari, cosa cerca di spiegare loro riguardo al futuro?

Alcuni fin dalla prima lezione mi chiedono: “Prof, saremo disoccupati?”. E io rispondo, molto tranquillamente: “Ragazzi, voi dovete ancora entrare nel mondo del lavoro, per essere un disoccupato bisogna prima aver avuto un’occupazione e averla persa”. Quest’ansia della crisi che c’è al di fuori dei chiostri universitari talvolta diventa un alibi. Credo comunque che alla base per gli aspiranti lavoratori di domani debba cambiare il tipo di percorso formativo, cosa che per altro sta già avvenendo in parte.

Lei che soluzione propone?

A mio avviso, ci sarebbe bisogno di nuove figure di riferimento che facciano da “tramite” con i ragazzi, per evitare che si smarriscano. Chi sceglie giurisprudenza oggi sa già che purtroppo il settore degli avvocati è del tutto saturo. Al contrario, se un’impresa cerca operai specializzati, gli annunci rimangono senza risposta. Quando viene il momento di scegliere l’istruzione superiore, è un errore non valutare cosa chiede il mercato: non si può solo inseguire i propri sogni, bisogna che i sogni siano attaccati alla realtà. Serve un filo diretto con le imprese, per indicare ai ragazzi quali sono i mestieri più richiesti del momento. Così forse avremo meno Neet in Italia. di Elisabetta Longo

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